sabato 26 novembre 2011

KINKS, THE

       Ray Davies è stato il più importante cantautore inglese. Di certo il più grande musicista inglese che ha fatto della propria terra natale la sua poetica. Le sue canzoni sono vignette che rappresentano un mondo passato ormai inesistente o forse mai esistito ma vivo nella mente di Davies. Si limitasse solo a questo la sua impronta sulla musica pop rock essa sarebbe già molto profonda, se aggiungiamo che i Kinks sono stati il gruppo che ha dato vita a due generi come il punk e l’hard rock grazie ai loro primi singoli ci si rende subito conto della sua rilevanza.
Gli esordi vedono il gruppo composto dai due fratelli Davies Ray e Dave alle chitarre, Pete Quaife al basso e Mick Avory alla batteria. I Kinks inizialmente propongono una versione di merseybeat mescolato con r&b e chitarre violentate da primi rudimentali esperimenti con distorsioni.

1964. KINKS


       I primi due singoli della band (la cover di “Long Tall Sally” e “You Still Want Me”) non garantiscono alla band un immediato successo. È la terza uscita a meritargli il consenso di pubblico e soprattutto, limitativo anche a dirlo, a fargli cambiare il corso della musica rock. Il brano è composto totalmente da serie di due accordi. L’idea rivoluzionaria di Dave Davies, chitarrista del gruppo, è di tagliare letteralmente il suo amplificatore in sede di registrazione per potenziare la ruvidità del pezzo. Questo esperimento porta alla creazione di uno dei suoni più potenti della musica rock. Il suono di “You Really Got Me” sarà presente nella maggior parte delle chitarre garage punk da lì a venire. Altra caratteristica fondamentale del brano è il veloce assolo che fa da ponte al finale. Prendendo strade che si separeranno, è da “You Really Got Me” che prende via il percorso di concepimento e conseguente evoluzione del punk e dell’hard rock. A sottolineare questo percorso rivoluzionario è anche il singolo successivo “All Day And All Of The Night” che, muovendosi nelle stesse sporche acque, accresce le violenza interpretativa. Il disco omonimo d’esordio conferma le aspettative date da questi due singoli. Le distorsioni sono sempre presenti, sia nei brani più tirati come “Beautiful Delilah”, “I’m A Lover Not A Fighter” e la martellante strumentale “Revenge”, che in quelli più canonici come “So Mistifying” e “Stop You Sobbing”. La voce di Davies è sempre rauca e nasale, le chitarre del fratello ad ogni battuta sempre più ruvide. Il lato melodico è occupato da “Just Can’t Go To Sleep” e “I Took My Baby Home” che sono dirette discendenti del merseybeat di Liverpool.

1965. KINDA KINKS


       Ad accompagnare l’aspetto discografico, i Kinks si fanno conoscere in tutta Inghilterra grazie ai loro violenti concerti che spesso si concludono in risse tra i membri del gruppo. A superare per impatto sonoro la pesantezza dei Kinks saranno solo gli Who, tra i loro più grandi estimatori. Uno di questi episodi costa al gruppo una censura da parte del mercato discografico americano che impedirà alla band di esibirsi oltreoceano per i successivi cinque anni. A dar seguito ai successi dell’anno precedente ci pensano la melodica “Tired Of Waiting For You” e il rockabilly elettrificato di “Ev’rybody’s Gonna Be Happy”. Il secondo album oltre ad essere diretta conseguente del precedente (“Got My Feet On The Ground”, “Come On Now”) lascia intravedere qualche primo  barlume acustico nelle composizioni di Davies (“Nothin’ In This World Can Stop Me From Worryin’ ‘Bout That Girl”, “So Long”, “Something Better Beginning”). A proseguire su un percorso di mediazione è pubblicato il settimo singolo “Set Me Free” che è più vicino alle sponde tranquille di “Tired Of Waiting For You” che a quelle scogliose di “You Really Got Me”. Di opposta ispirazione è invece la potentissima B side “I Need You”.

1965. THE KINK KONTROVERSY

 
       A metà anno viene pubblicato un altro 45 giri fondamentale per il gruppo e per la musica rock del periodo. Si tratta di “See My Friends”. Brano composto dopo una tourneè in oriente anticipa di molti mesi l’avvento della moda psichedelica. Davies ispirato dalla musica indiana concepisce una melodia e un arrangiamento per chitarra completamente innovativi per l’epoca di fatto facendo nascere il genere raga rock che presto sarà preso in prestito da molti gruppi tra i quali i Beatles e, per certi aspetti, i Velvet Underground. The Kink Kontroversy, anticipato da “Till The End Of The Day”, terza ed ultima parte di una violenta trilogia iniziata con “You Really Got Me” e proseguita con “All Day All Of The Night”, è un disco di transizione. Presenta elementi caratteristici del primo periodo e ne anticipa altri del successivo. Per il lato proto hard rock sono presenti il singolo sopracitato, “Milk Cow Blues” (con un rave up finale degno degli Yardbirds) e “Gotta Get The First Plane Home”. Il lato melanconico, che prenderà il sopravvento a breve nella scrittura di Ray Davies, è rappresentato da “Where All The Good Times Gone”, “The World Keeps Going Round” e “I’m On An Island”, primi esperimenti di un modo nuovo di intendere la canzone d’autore inglese. I due brani che fanno da spartiacque ed inaugurano il secondo e più importante periodo dei i Kinks sono “A Well Respected Man” (dall’Ep Kwyet Kinks) e “Dedicated Follower Of Fashion” (singolo di fine ’65). Il cambio di direzione è radicale: Davies inizia il suo percorso d’indagine su pregi e difetti, vizi e virtù della borghesia britannica. Da questa coppia di brani in poi il cantante metterà a nudo ogni aspetto, ogni angolo della sua amata nazione in doloroso e costante mutamento.

1966. FACE TO FACE


       È con il 1966 che Davies comincia a comporre una serie di capolavori di musica popolare che proseguiranno almeno fino ad inizio anni ’70. Primi fondamentali singoli di questo nuovo corso sono “Sunny Afternoon” e “Dead End Street”, due modi speculari per descrivere la società contemporanea: la prima incentrata sulla upper class, con le innocue difficoltà date dalla sua routine, e la seconda sulla working class, un vero capolavoro per composizione e liriche. Incastonato tra queste due pubblicazioni è posto l’album Face To Face. Il disco è uno dei primi concept album della musica inglese. Come lasciato intuire dal titolo quest’opera è una rassegna che passa volto per volto una serie di personaggi reali e surreali descritti con minuziosa severità a volte e sarcastica ironia in altre. Da un’impiegata di un’agenzia del telefono (“Party Line”) passiamo ad una ragazza scappata di casa (“Rosie Won’t You Please Come Home”) per poi imbatterci nel ragazzo alla moda del quartiere (“Dandy”), la sua controparte (“Little Miss Queen Of Darkness”) e fare quattro chiacchiere sulla ripetitività del lavoro di  “Session Man”. In tutto il nostro peregrinare con Davies troviamo anche il tempo per godere dei benefici dati da una vita agiata nella nostra “House In The Country” indecisi se acquistare il “Most Exclusive Residence For Sale” del paese e, da migliori degli inetti, farci spennare di tutti i quattrini durante la nostra “Holiday In Waikiki”. I racconti di Davies sono di una sconfitta sociale mediata da un’unica possibilità di salvezza data dall’autocoscienza della propria posizione di eterno perdente.

1967. SOMETHING ELSE BY THE KINKS


       Nel 1967 mentre il mondo del rock è in preda ad aprire le proprie porte della percezione durante la summer of love Ray Davies cerca qualcos’altro e mettendo la retromarcia imbeve la sua musica di elementi musicali arcaici della musica folkloristica britannica come il vaudeville, le marce popolari, il music hall e molte altre. Proseguendo per un paragone astratto è interessante affermare come Davies e Bob Dylan in quest’annata stiano seguendo le stesse ricerche sonore in direzioni divergenti: entrambi disinteressati al movimento psichedelico, del quale in parte sono stati per alcuni elementi artefici nel creare, rifuggono lo sguardo verso il futuro rannicchiandosi nelle musiche dei loro diretti padri, da un lato l’Inghilterra delle campagne e dei villaggi diroccati, dall’altro l’America della frontiera.  Something Else segue il percorso di Face To Face andando più a fondo nella ricerca antropologica. Tutte le tracce che solcano il vinile sono imbevute di una pervadente malinconia dei tempi che furono e non saranno. Alla lista di personaggi se ne iscrivono altri. “David Watts”, ipotetico fratello del “Dandy” del precedente disco, il soldatino “Tin Soldier Man” e la sconfitta sociale nella contrapposizione della vita di due sorelle (“Two Sisters”). In oltre troviamo il primo brano di Dave Davies a riuscire a rivaleggiare con gli affreschi del fratello, la sardonica e decadente “Death Of A Clown”. Vero capolavoro dell’album e tra gli apici della poetica di Ray Davies è “Waterloo Sunset”, melanconica meditazione di un solitario osservatore della stazione di Waterloo al tramonto, dei suoi passanti tra i quali spiccano i due poveri innamorati Terry e Julie. Se pensiamo che tutto il mondo musicale negli stessi mesi è intento a viaggiare nei meandri della propria mente con dosi di marjiuana e acidi, farci offrire dalla famiglia Davies il the delle cinque (“Afternoon Tea”) è la cosa più paradossalmente trasgressiva che si possa immaginare. A chiudere l’annata i Kinks pubblicano il singolo “Autumn Almanac”, uno dei capolavori della musica pop inglese degli anni ’60, una rock opera condensata in unica canzone dove tutte le poetiche di Davies trovano posto. Di valore quasi pari è il suo corrispettivo lato B “Mr. Pleasant”.

1968. THE KINKS ARE THE VILLAGE GREEN PRESERVATION SOCIETY


       Anticipato dai 45 giri “Wonderboy” e “Days”, il 1968 vede la pubblicazione dell’opera magna dei Kinks. The Village Green Preservation Society è un concept album sulla perdità di valori della società, una raccolta di vignette e schizzi su ipotetici abitanti dell’immaginario Villaggio Verde dipinto da Ray Davies. Quest’opera bucolica si staglia tra i più importanti manifesti della musica popolare inglese del secondo novecento. La somma dei brani che lo contengono, già di per sé rilevanti, compone un capolavoro più ampio delle sue singole parti. Questo disco è un percorso a bussare di porta in porta alle abitazioni del Villaggio per conoscerne gli abitanti e le loro caratteristiche. Ricordarsi insieme del mito del paese in “Do You Remember Walter”, dei suoi treni a vapore ormai scomparsi (“Last Of The Steam-Powered Trains”), osservare il disadattato “Johnny Thunder”, i propri amici di un tempo (“All Of My Friends Were There”), re innamorarsi di “Monica”, renderci conto di come la gente faccia fotografie per tenere vivi più che i propri ricordi la propria esistenza (“People Take Picture Of Each Others”). A guardarlo da lontano questo disco rende l’idea di trovarsi davanti ad un malconcio libro di vecchie fotografie con tutta la malinconia che quest’azione porta alla memoria (“Picture Book”). Il pubblico ormai è distante dai Kinks e dai voli della memoria di Davies e i dischi faranno solo sporadiche incursioni nelle classifiche. “… and if I talked about the old times you'd get bored and you'll have nothing more to say...”: Davies ne è più che consapevole.

1969. ARTHUR (OR THE DECLINE AND FALL OF THE BRITISH EMPIRE)


       Riadattato da un progetto televisivo fallito i Kinks si cimentano nella loro prima rock opera. Arthur è un lavoro più complesso dei precedenti e possiede strutture compositive più articolate. Il discorso Davisiano dalla Gran Bretagna si allarga a tutto il Commonwelth narrando le vicende di un uomo borghese che dalla sua terra natia parte per cercare fortuna in Australia. L’opera contiene meditazioni sulla politica, sulla guerra (“Yes Sir, No Sir”, “Some Mother’s Son”, “Mr. Churchill Says”), sulla perenne sconfitta dell’uomo medio nei confronti delle istituzioni della società odierna (“Brainwashed”). A differenza di album a se coevi come Tommy degli Who e S. F. Sorrow dei Pretty Things, Arthur risulta un disco sicuramente più semplice ma allo stesso tempo solare riuscendo a non indugiare eccessivamente sugli aspetti più tetri tipici di una rock opera. La memoria storica è sempre presente (“Victoria”), così come le ipotesi di fuga dall’opprimente realtà urbana (“Drivin’”). Capolavoro del disco sono i sei minuti di “Shangri-la”, descrizione definitiva in musica della poetica di Davies.  A compendio dell’album che vede l’avvicendarsi tra lo storico bassista Quaife con il nuovo John Dalton, è pubblicato il singolo “Plastic Man”.

1970. LOLA VERSUS POWERMAN AND THE MONEYGOROUND PART ONE


       Partendo dall’ultimo brano di Arthur, la sua titletrack, i Kinks, forse grazie anche alla conclusione della diffida dal suonare in America, iniziano ad incorporare elementi caratteristici del sound statunitense come bluegrass e country. Il tutto risulta evidente con l’album del 1970, Lola che, lanciato dal singolo omonimo, torna a dare qualche frutto anche in campo di vendite. Curioso è il fatto che il disco del ritorno al successo commerciale sia un concept album incentrato su una forte critica alle case discografiche (“Powerman”) e alle loro strategie di spremitura degli artisti (“The Moneygoround”). Il lotto di brani vede spiccare il secondo singolo “Apeman”, i country inglesizzati “This Time Tomorrow” e “Denmark Street” e l’ottima ballata di Dave Davies “Strangers”. La chiusura dell’anno vede la pubblicazione della colonna sonora per il film Percy. Disco di poco interesse contiene di rilevante solo il brano “God’s Children”.

1971. MUSWELL HILLBILLIES


       Muswell Hillbillies porta agli estremi i dogmi solo accennati da Lola Versus Powerman And The Moneygoround. Il disco è un paradosso musicale che vede l’unione eterodossa di generi transatlantici nati ortodossi. Il bluegrass è unito al vaudeville (“Have A Cuppa Tea”, “Holiday”), il country al music hall e al cabaret (“Alcohol”, “Holloway Jail”). Il risultato è un controsenso storico di grande fascino. A livello tematico l’album è un ritorno ai luoghi d’infanzia della famiglia Davies, il quartiere londinese di Muswell. Il risultato sonoro emotivo è il ritrovarsi in un pub circondati da passanti e ubriachi di ogni sorta, racconti di vita, malesseri giornalieri. Il disco è circondato dall’apertura di “20th Century People” e la chiusura di “Muswell Hillbillie” che sono collegate musicalmente e ideologicamente per dare al tutto un unico filo conduttore. Questo ritorno all’infanzia da parte di Davies pare chiudere il periodo migliore della carriera dei Kinks che da questo momento si dedicheranno a progetti più ambiziosi ma non altrettanto riusciti. 

1972. EVERYBODY’S IN SHOW-BIZ, EVERYBODY’S A STAR


        Everybody’s In Show-biz inizia una seconda evoluzione nel suono del gruppo: dai concept album Davis tenta il grande salto e punta direttamente ai teatri cercando di creare quello a cui aveva sempre mirato da inizio carriera: la realizzazione di una grande opera popolare inglese. Show-biz è ancora un disco di transizione in questo percorso, diviso in due parti, una in studio e una dal vivo, è prosecuzione della critica al mercato discografico cominciata con Lola. Le pecche di questo album sono una sensibile sconnessione tra i brani che lo fa risultare più un riempitivo nella carriera che un album vero e proprio. Le uniche note positive sono i due brani pubblicati anche a parte, “Supersonic Rocket Ship”, ideale seconda parte di “Apeman”, la lunga nenia “Celluloid Heroes” e la curiosa “Hot Potatoes” sulle corde di Muswell Hillbillies. Il secondo disco non merita neppure menzione per la qualità sonora da bootleg e la scelta del materiale.

1973. PRESERVATION ACT 1


       Il gruppo già tramutatosi in quintetto ai tempi di Lola con l’aggiunta di John Gosling alle tastiere ora è diventato un vero e proprio progetto teatrale scritturando sezioni di fiati, archi e coristi. Il primo atto del progetto Preservation è un crogiuolo di cose già espresse da Davies e soprattutto espresse in passato in maniera molto più convincente. Se nella teoria l’idea di ripercorrere le vicende del capolavoro Village Green con una narrazione che va a fondo nello studio dei personaggi risulta interessante, su disco la scrittura di Davies è ridondante e auto indulgente. Più che una nuova rock opera sembra di ascoltare un remake mal riuscito di Arthur. A salvare il tutto dal totale disinteresse è presente uno degli ultimi brani degni di nota del gruppo “Sweet Lady Genevieve” che si staglia notevolmente dal resto delle composizioni.

1974. PRESERVATION ACT 2


        La seconda parte di Preservation riesce a coprire i difetti del primo atto con una migliore riuscita nella commistione tra rock e aspetti teatrali. L’amalgama dei brani e lo sviluppo narrativo è decisamente migliore. L’eccentricità dell’opera lo fa assomigliare a un punto di connessione tra The Who Sell Out (per un fluido connettivo dato dagli interventi dei giornali radio) e certi passaggi di Absolutely Free dei Mothers Of Invention (per la sua ecletticità musicale). Il disco non è neppure lontanamente paragonabile ai capolavori prece denti del gruppo ma è sicuramente il miglior risultato raggiunto nella sua incarnazione teatrale. Questa operazione avrà appunto superiori riscontri nella sua trasposizione su palco dove l’aspetto visivo, assente dal disco, eleverà maggiormente i risultati dell’opera.

1975. THE KINKS PRESENT A SOAP OPERA


       Se il progetto di Preservation è tematicamente collegato a un lavoro precedente come The Village Green Preservation Society, l’opera successiva si rifà a idee già espresse in Lola Versus Powerman And The Moneygoround e Everybody’s In Showbiz. Soap Opera è uno studio sulla celebrità e i suoi aspetti più meschini. L’album risulta però il più debole di questa parte di carriera dei Kinks. Il lotto di brani scelti per comporre quest’opera teatrale non è all’altezza delle creazioni passate e le autoindulgenze di Ray Davies oltrepassano le qualità intrinseche di ogni singolo brano. La sensazione principale è la ridondanza, sia interiore al disco, sia rispetto a poetiche già comunicateci più volte dal compositore. Se in precedenza certe eccentricità potevano essere giustificate da ricercate ironie e trovate da cabaret, in quest’album le scuse ontologiche non sembrano più reggere e pare di essere sommersi da una sensazione di totale lascività interpretativa. Nella sua ingrità Soap Opera ha il suono e la rilevanza culturale di una telenovela, e se intrinsecamente questa scelta può risultare affine al suo scopo, il risultato viaggia su un livello di mediocrità preoccupante. Più che cercare picchi è molto più semplice trovare le cadute di stile. Tra le poche note positive ascriviamo la doppietta “Nine To Five”/”When The Work Is Over” e “Holiday Romance”, che fanno rivivere certe emotività passate nella scrittura Davisiana. In questo periodo il resto del gruppo sembra più assecondare passivamente le stravaganti idee di Davies che partecipare attivamente alle registrazioni.

1975. THE KINKS PRESENT SCHOOLBOYS IN DISGRACE


       A chiudere il periodo teatrale di un gruppo che ormai non è più una rock band ma una banda di paese non può essere che un sentimento di malinconia. Schoolboys In Disgrace è un prequel di Preservation e segue le vicende della crescita adolescenziale di Mr. Flash, protagonista della doppia opera del biennio ‘73/’74. La qualità è di un gradino superiore a quella dell’album precedente grazie a un lieve ritorno a sonorità più rockeggianti. L’affiatamento tra i musicisti è migliorato e la volontaria scelta di seguire una filologia musicale incentrata su tipologie varie di rock anni ’50 è azzeccata. Il risultato tematico sembra predatare di qualche anno le sequenze scolastiche del Waters di The Wall attraverso una visione più sarcastica e ironica. Brani come “Education” e “The Last Assembly” hanno un suono e un’aspetto compositivo che convince maggiormente di tutto quello fatto in Soap Opera. Schoolboys sarà l’ultimo disco di quest’era dei Kinks. Con il successivo Sleepwalker si cimenteranno in un più canonico e per certi versi banale rock da arena. Davies concede alla sua malinconia e ai suoi ricercati anacronismi un ultimo saluto con la simbolica “No More Looking Back” che si rivela più un’autocritica e una spinta al cambiamento che un’autoanalisi poetica.

Discografia Uk

Lp:
1964 – Kinks [***]
1965 – Kinda Kinks [**1/2]
1965 – The Kink Kontroversy [***]
1966 – Face To Face [****]
1967 – Something Else By The Kinks [****]
1968 – The Kinks Are The Village Green Preservation Society [*****]
1969 – Arthur (Or The Decline And Fall Of The British Empire) [****]
1970 – Lola Versus Powerman And The Moneygoround Part One [***]
1971 – Muswell Hillbillies [***]
1972 – Everybody’s In Showbiz - Everybody's A Star [**]
1973 – Preservation Act 1 [**]
1974 – Preservation Act 2 [**1/2]
1975 – The Kinks Present A Soap Opera [*1/2]
1975 – The Kinks Present Schoolboys In Disgrace [**]

Singoli / Ep:
Long Tall Sally – 1964
You Still Want Me – 1964
You Really Got Me – 1964
All Day And All Of The Night – 1964
Kingsize Session [Ep] - 1964
Tired Of Waiting For You – 1965
Ev’rybody’s Gonna Be Happy – 1965
Kingsize Hits [Ep] - 1965
Set Me Free – 1965
See My Friends – 1965
Kwyet Kinks [Ep] – 1965
Dedicated Follower Of Fashion – 1965
Sunny Afternoon – 1966
Dedicated Kinks [Ep] - 1966
Dead End Street – 1966
Waterloo Sunset – 1967
Death Of A Clown – 1967
Autumn Almanac – 1967
Susannah’s Still Alive – 1967
Wonderboy – 1968
Kinks [Ep] - 1968
Days – 1968
Drivin’ – 1969
Shagri-la – 1969
Victoria – 1969
Lola – 1970
Apeman – 1970
God’s Children – 1971
From The Soundtrack Of The Film 'Percy' [Ep] - 1971
Supersonic Rocket Ship – 1972
Celluloid Heroes – 1972
Sitting In The Midday Sun – 1973
Sweet Lady Genevie – 1973
Mirror Of Love – 1974
Holiday Romance - 1974
Ducks On The Wall – 1975
You Can’t Stop The Music – 1975
No More Looking Back – 1976

Live:
1968 – Live At Kelvin Hall

O.S.T.:
"Percy" - 1971

lunedì 21 novembre 2011

ANIMALS, THE

    Gli esordi come gruppo risalgono a fine 1962 a nome Alan Price Rhythm And Blues Combo intotolato al tastierista Alan Price. Saranno proprio tastiere e organo a differenziare in un primo periodo i nascenti Animals dagli altri gruppi r & b inglesi. Insieme a Price la band vede tra le sue fila il chitarrista Hilton Valentine, il bassista Chas Chandler e il batterista John Steele ai quali presto si aggrega Eric Burdon. Vera spinta in più per il gruppo, il cantante si imporrà subito come una delle voci più interessanti nel nuovo panorama rock, sicuramente la più potente e profonda del periodo insieme a quella di Van Morrison dei Them. Spinti da buoni riscontri di pubblico, dalla natale Newcastle il gruppo presto si trasferisce a Londra alla ricerca di fortuna e di un contratto discografico. Grazie alla fama che li precede e attraverso l’aiuto di Mickie Most trovano, come capitato agli Yardbirds, un contratto con la Columbia. Nel frattempo il nome si è tramutato in Animals, appellativo che il gruppo ha guadagnato dalle sue rudi esibizioni dal vivo. Il repertorio si staglia tra vibranti cover di blues e soul reinterpretate in chiave elettrica  con una potentissima irruenza vocale da parte di Burdon.

1964. THE ANIMALS

        Il primo contributo per il mercato discografico è “Baby Let Me Take You Home” pubblicato nel marzo del ’64 ma è con il secondo singolo che gli Animals arrivano al successo. “The House Of The Rising Sun” riesce a raggiungere la testa delle classifiche inglesi e americane. Oltre che per il trionfo commerciale il brano è fondamentale per la nascita di quello che l’anno successivo grazie al contributo dei Byrds sarà definito come folk rock: una commistione tra musica folk e r & b. Probabilmente ispirati dalla versione presente nel primo album di Bob Dylan gli Animals destrutturano completamente la fonte originale cambiando completamente arrangiamento, aggiungendo il celebre arpeggio chitarristico e condendo il tutto di una epicità assente nelle versioni precedenti. Ad anticipare l’uscita del disco d’esordio il gruppo pubblica il terzo 45 giri “I’m Crying” primo pezzo scritto dalla band. L’Lp comprende nella sua totalità cover di brani blues e soul e possiede l’unico diffetto di essere in tutto e per tutto quello che ci si aspetta dalla band. Il disco risulta un compendio ai singoli del periodo e così sarà per il resto della carriera del gruppo. I brani di miglior effetto sono quelli più narrativi dove la voce di Burdon si fa portavoce generazionale del sentimento di ribellione (“Story Of Bo Diddley”, “I’m Mad Again”) o dove raggiunge i suoi primi argini di violenza giugulare (“Bury My Body”). Se l’album è di ispirazione più ortodossa, nella scelta dei singoli la band preferisce sperimentare con diversi generi musicali. Il secondo grande successo del gruppo è infatti una cover del brano di Nina Simone “Don’t Let Me Be Misunderstood”. La canzone è accelerata rispetto alla versione originale, condita da una battaglia tra organo e chitarra e un’ennesima superba interpretazione di Burdon. 
1965. ANIMAL TRACKS

          Incisione successiva è “Bring It On Home To Me” dove la resa del brano di Sam Cooke non ha significativi mutamenti e apre la strada per la pubblicazione del secondo album non prima che il membro fondatore del gruppo Alan Price lasci la band per essere sostituito per un breve periodo da Mick Gallagher e successivamente in pianta stabile da Dave Rowberry. Come il precedente Lp contiene per la maggior sua parte cover e ne ricalca ampiamente lo stile migliorando la sinergia della band nei pezzi di chiara matrice blues e soul (“I Believe To My Soul”, “Worried Life Blues”). Tra le poche differenze si trovano una minore irruenza espressiva eccezion fatta per la conclusiva “Roadrunner” e l’originale “For Miss Caulker” scritto interamente da Burdon. Il vero salto di qualità gli Animals lo compiono con la tripletta di singoli data alle stampe nei sei mesi successivi. Il primo vertice di questo triangolo è disegnato dalla battagliera “We Gotta Get Out Of This Place” con giro di basso iniziale e ritornello memorabili e assunta subito a simbolo della guerra del Vietnam. Basso portante e chitarra Byrdsiana portante anche in “It’s My Life”, brano di ribellione giovanile che aumenta la rabbia sonora della sua antecedente.

1966. ANIMALISMS

          Apice superiore di questo triangolo aureo è raggiunto con la fondamentale “Inside-Looking Out” della primavera ‘66, un blues affogato in violenze soniche con una interpretazione di Eric Burdon che anticipa eruzioni vocali che Jim Morrison farà proprie da li a qualche mese. “Inside-Looking Out” è il primo brano prodotto da Tom Wilson, il cambio di registro è sensibile e le correlazioni con la nuova musica americana, soprattutto quella della west coast, è palpabile. Wilson è in cabina di regia anche per la produzione del terzo album, Animalisms, e il risultato è una concezione timbrica più compatta e vibrante. Con il nuovo batterista Barry Jenkins a sostituire lo storico John Steele, i brani di maggior effetto risultano quelli più ritmati come “Outcast”, “Squeeze Her, Tease Her” e le reminiscenze rock ‘n’ roll di “Sweet Little Sixteen”. Il crescente interesse di Burdon per le sonorità lisergiche americane porta alla realizzazione di Animalism, album realizzato in California per il solo mercato americano ma fondamentale per capire l’evoluzione darwinistica degli animali. Il disco, anch’esso prodotto da Wilson, vede la collaborazione di Frank Zappa in “All Night Long” e sonorità in parte sdoganate dal rhythm & blues degli esordi. A potenziare l’impatto sonoro sono presenti brani come “Rock Me Baby”, “Smokestack Lightning” e una versione ancora più rude di “Outcast” che rendono il gruppo tra i primi del ‘66 a sconfinare nell’hard blues. Il gruppo in breve tempo si scinderà consentendo al cantante di formare un nuovo gruppo a nome Eric Burdon And The Animals (di cui della formazione classica farà parte solo Jenkins) di chiare influenze della baia psichedelica di San Francisco. Chas Chandler diventerà un influente produttore che avrà tra i tanti meriti quello di aver scoperto il chitarrista Jimi Hendrix portandolo in Inghilterra e  registrando i primi due dischi della Experience.


Discografia UK

Lp:
1964 – The Animals [**1/2]
1965 – Animal Tracks [**]
1966 – Animalisms [**1/2]


Singoli / Ep:

The Animals Is Here [Ep] – 1964
Baby Let Me Take You Home – 1964
The House Of The Rising Sun – 1964
The Animals [Ep] – 1964
I’m Crying – 1964
Don’t Let Me Be Misunderstood – 1965
Bring It On Home To Me – 1965
We Gotta Get Out Of This Place – 1965
The Animals Are Back [Ep] – 1965
It’s My Life – 1965
In The Beginning There Was Early Animals [Ep] – 1966
Inside-Looking Out – 1966
Don’t Bring Me Down – 1966

mercoledì 16 novembre 2011

YARDBIRDS, THE

Gli Yardbirds sono passati alla storia come il gruppo che ha fatto da trampolino di lancio per le carriere dei tre più famosi chitarristi inglesi degli anni sessanta: Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page. In realtà la loro influenza sulla musica rock non si limita solo a questo aspetto puramente statistico ma è di fondamentale importanza per la sviluppo e la formalizzazione di almeno due generi peculiari di quel decennio: il rock pesante e quello psichedelico.
Il fulcro embrionale della band nasce a cavallo tra il ’62 e il ’63 attorno alla formazione composta da Paul Samwell-Smith al basso, Chris Dreja alla chitarra, Keith Relf alla voce e Jim McCarty alla batteria. Al quartetto presto si aggiunge alla chitarra solista il giovane Eric Clapton. L’inizio carriera degli Yardbirds è una diretta conseguenza del successo dei Rolling Stones. È infatti al Crawdaddy Club, storico locale londinese che ha da poco tempo dato celebrità a Jagger e soci, che gli Yardbirds iniziano a calcare le scene. Come per gli Stones il loro stile è un intreccio di elettrico rhythm & blues americano e elementi personali. La differenza tra i precedenti occupanti di quel palcoscenico si ritrova nel diverso approccio interpretativo dei brani. Dove gli Stones portavano una loro visione spogliata e minimalista dei brani in repertorio, gli Yardbirds elevano i loro concerti a degli happening ante litteram prolungando l'esecuzione dei pezzi in repertorio con lunghi assoli strumentali e potenziando l’impatto sonoro creando quello che da quel momento in poi verrà definito col termine di rave up: lunghe divagazioni soniche che si concludono in distruttivi epiloghi che destrutturano completamente il brano originale. Come capitato alle pietre anche loro sono presto notati dall’impresario del locale, Giorgio Gomelsky, che procurerà al gruppo un contratto con la Columbia e farà pubblicare il loro primo album: il live Five Live Yardbirds, disco che rappresenta a pieno la potenza sonora del quintetto.
La carriera in studio prende il via nella seconda metà del ’64 con il singolo “I Wish You Would”, una cover di Billy Boy Arnold che, pur lasciando da parte il caratteristico rave up concertistico, non si risparmia in distruttività nella parte conclusiva. Il brano sarà seguito dal passaggio interlocutorio di “Good Morning, Little School Girl”, canzone di secondo piano salvata solamente da un ottimo assolo volutamente fuori contesto eseguito da Clapton. Lo sperato successo di classifica si presenta con la pubblicazione del terzo singolo, il brano che rimarrà più celebre nella loro carriera: “For Your Love”. La canzone, composta da Graham Gouldman come gli immediatamente successivi due singoli, è un compromesso con la casa discografica, all’ascolto pare di sentire un'altra band suonare e, escludendo i celebri cambi di registro tra strofe e ritornelli, il brano più che un passo in altre direzioni musicali viene visto dai puristi sostenitori del gruppo come un tradimento. A questi ultimi si accoda lo stesso Clapton il quale, sempre più interessato ad una sua visione di rimodernamento del blues americano, abbandona il gruppo dopo breve tempo per unirsi ai Bluesbreakers di John Mayall prima e successivamente per formare Cream. Il materiale registrato fino a quel momento viene pubblicato su Lp negli USA con una raccolta dal titolo For Your Love.

Dopo aver pensato a Jimmy Page come sostituto, al tempo session man per molti gruppi inglesi, la band viene consigliata dallo stesso chitarrista sulla scelta dell’amico Jeff Beck. Questa è la svolta che fa elevare gli Yardbirds tra i gruppi fondamentali della scena rock inglese anni sessanta. La visione completamente nuova nell’uso della chitarra di Beck porta lo strumento ad un nuovo livello evolutivo attraverso le sue sperimentazioni con feedback e distorsioni di ogni sorta: con l’avvento di Jeff Beck nasce il chitarrista hard rock. Senza le sue visioni sonore le canzoni della band sarebbero state ben altra cosa. A prova di questo è il primo singolo pubblicato dalla nuova formazione, “Evil Hearted You”, al cui ritmo acustico da ballata spiritica viene sovrapposta una martellante distorsione e un fulminante assolo per slide guitar. Ancora più a fondo in questa ricerca sonora è “Heart Full Of Soul” dove l’intro di chitarra simula un sitar elettrificato. A coronamento di questo periodo viene pubblicato per il mercato americano il disco Havin’ A Rave Up With The Yardbirds. Disco ibrido, che si divide tra una prima facciata contenente i singoli del ’65 e la seconda con estratti da Five Live Yardbirds, è un disco fondamentale per l’epoca e imprescindibile per comprendere la nascita di tutto il movimento hard rock. Nell’album oltre ai due già citati 45 giri sono presenti: “Mr. You’re A Better Man Than I” con un andamento decadente e un assolo che anticipa i migliori Cream, “Still I’m Sad” che incorpora in un arrangiamento degno delle sperimentazioni western di Ennio Morricone parti vocali di stile gregoriano, e soprattutto “I’m A Man” e “ Train Kept A-Rollin'” (cover di Bo Diddley e Tiny Bradshaw) la prima con il celeberrimo rave up finale e la seconda con un andamento da panzer a pieni giri che canonizza già nel ’65 l’hard rock di fine decennio.
              
    1966. YARDBIRDS

   

Pur essendo stati tra i primi gruppi della così detta british invasion gli Yardbirds si ritrovano al 1966 senza ancora un album ufficiale all’attivo. Anticipato dalla marcia psicotica di “Shapes Of Things” d’inizio anno, il vuoto viene colmato a luglio dal disco omonimo, di consuetudine chiamato Roger The Engineer in riferimento alla caricatura del tecnico del suono posta in copertina. L’album è uno dei primi esempi psichedelici nel rock inglese, ma al contrario di pubblicazioni coeve non indulge in barocchismi strumentali esotici ma gioca tutte le sue carte nel proprio minimalismo. Il senso straniante e la spinta in più sono dati nella quasi totalità dei brani dalla chitarra di Beck ormai diventata primario impulso sonoro all’interno della band che spesso sembra lavorare per contrappunto rispetto agli altri strumenti. Le intuizioni di “Heart Full Of Soul” vengono portate all’estremo nel singolo portante “Over Under Sideways Down” dove un classico boogie è incastonato in un distorto riff di vena orientale, mentre in “He’s Always There”il chitarrista riesce ad inasprire l’inaspribile filtro fuzz. Tutto l’album è un manuale sull’utilizzo del feedback: portato all’infinito in “Lost Women” e “The Nazz Are Blue”, reso epico in “I Can’t Make Your Way” ogni nota della sua chitarra (“Jeff’s Boogie”) lascia intuire quanto Beck sia su un altro pianeta rispetto agli altri chitarristi del periodo. A condire il tutto di maggiore alone protopsichedelico troviamo i commiati medievalisti di “Farewell” e “Ever Since The World Began” e il viaggio sulle giostre mentali di “Hot House Of Omagararshid”.
         Poco dopo la pubblicazione dell’album omonimo Paul Samwell-Smith lascia il gruppo per cimentarsi nella produzione. Il posto vacante viene ricoperto finalmente da Jimmy Page che in un primo momento sarà il nuovo bassista e successivamente, date le sue qualità, si sostituirà con Chris Dreja per suonare la seconda chitarra. Questo periodo di sovrapposizione tra le chitarre di Page e Beck sarà molto breve ma rilevante a livello di evoluzione sonora. Le uniche due produzioni lasciateci da questa line up sono “Stroll On” (una potentissima rivisitazione di “Train Kept-A Rollin'” per il film Blow Up di Michelangelo Antonioni, suonata dalla band stessa nella celebre sequenza del concerto), e soprattutto l’innovativa “Happenings Ten Years Time Ago” dove la sinergia tra i musicisti e la ferocia interpretativa creano quella che può essere definita una versione embrionale delle potenzialità distruttive dei Led Zeppelin.

          Da questa pubblicazione Jeff Beck abbandona il gruppo per dedicarsi a progetti personali tra cui la formazione di un’altra band. Senza la sua guida e con il gruppo diviso idealisticamente in due fazioni con Page interessato a suoni hard blues nella vena di Cream e The Jimi Hendrix Experience e i restanti membri concentrati in ricerche folk e classicheggianti la band risente nella qualità delle registrazioni e sui favori del pubblico. Il secondo album Little Games del 1967, anche con demerito dell’insuccesso ricevuto dalla titletrack “Little Games” su singolo (una banale pop song), non sarà neppure pubblicato in patria. Spinti da questi fiaschi gli Yardbirds cominciano a sperimentare in sede live nei tour del ’68. E' da questo momento di crisi che inizia ad avviarsi il percorso di mutazione da Yardbirds e Zeppelin. La dilatazione musicale viene portata al livello dei Cream e quella timbrica potenziata a dismisura. Da queste nuove formule compositive nasce un brano che verrà pienamente sviluppato in seguito dal titolo “Dazed And Confused”. Dal periodo di stallo commerciale la band esce con le ossa rotte ed in continua disgregazione: uno ad uno i componenti del gruppo rassegneranno le dimissioni per seguire le proprie ispirazioni. Gli Yardbirds, ora in mano al solo Page, nel giro di brevissimo tempo rinasceranno come New Yardbirds con l’inserimento di John Paul Jones al basso (che aveva già imbracciato lo strumento in “Happenings Ten Years Time Ago”), Robert Plant alla voce e John Bonham alla batteria per poi tramutare il loro nome in Led Zeppelin.   

 
DISCOGRAFIA UK



Lp:
1966 – Yardbirds [****]














Singoli / Ep:
I Wish You Would – 1964
Good Morning, Little School Girl – 1964
For Your Love – 1965
Heart Full Of Soul – 1965
Five Yardbirds (Ep) - 1965
Evil Hearted You – 1965
Shapes Of Things – 1966
Over Under Sideways Down – 1966
Happenings Ten Years Time Ago – 1966
Over Under Sideways Down (Ep) - 1967
Little Games – 1967



Live:
1964 - Five Live Yardbirds 
1966 - Sonny Boy Williamson And The Yardbirds

lunedì 14 novembre 2011

ROLLING STONES, THE



 Il primo nucleo dei Rolling Stones è composto da Brian Jones, Keith Richard, Mick Jagger e Ian Stewart. Siamo nella Londra del ‘62 e attorno al gruppo si interscambiano molti musicisti tra i quali anche Dick Taylor che abbandonerà quasi subito le neonate pietre per formare i Pretty Things. La formazione vede il suo completamento con l’arrivo della sezione ritmica composta da Bill Wyman e Charlie Watts rispettivamente al basso e alla batteria e con l’esclusione di Stewart da membro effettivo della band a manager e collaboratore di studio. Nel primo periodo della carriera il leader della band è Jones, eclettico chitarrista affascinato da blues e r&b americano, che li guiderà nella direzione artistica e nella scelta del materiale da eseguire nei concerti. Più le composizioni del cantante Jagger e del chitarrista Richard diventeranno preponderanti più la leadership di Jones andrà svanendo fino ad auto annientarsi completamente.

L'epoca più importante della band è compresa tra la sua fondazione nel ‘62 e la metà degli anni ’70 e può essere tematicamente divisa in tre parti: la prima, improntata sul rhythm and blues, che dagli esordi del ’63 prosegue fino ai primi fondamentali singoli del ’65; la seconda che comprende il biennio ’66/’67 incorporando di disco in disco in quantità sempre più presente elementi psichedelici; e dal 1968 in poi tornando alle radici della musica sia nera che bianca con un americanismo eterogeneo che si staglia tra il blues, il soul ed il country.

1964. THE ROLLING STONES

 
 Dopo alcuni concerti in locali londinesi il gruppo è notato dal giovane produttore Adrew Loog Oldham che interessato al loro sound, molto distante dallo skiffle e il merseybeat di moda in quel periodo grazie all’ascesa di gruppi come Beatles, Jerry And The Peacemaker e Hollies, procura alla band un contratto con la Decca Records. La prima produzione discografica è il singolo del 1963 “Come On”, una cover di Chuck Berry. I Rolling Stones, coadiuvati da Oldham, iniziano ad essere visti dalla stampa del settore come la risposta sporca e brutale al pop in quel periodo più accomodante dei Beatles. Questo paragone, o addirittura rivalità, passerà alla storia musicale ed entrerà a far parte anche del linguaggio comune, pur essendo una mera invenzione giornalistica nonché un falso storico. Le due band sono nate da generi musicali ben distinti ed oltretutto per tutto il decennio intrecceranno le proprie carriere con reciproci scambi collaborativi.  Se ai tempi si avesse voluto seriamente parlare di rivalità o epigoni si sarebbero dovuti citare gli Yardbirds, gruppo che sostituirà gli Stones nel circuito underground londinese quando questi diventeranno delle celebrità. È comunque certo che farsi nemesi della band più famosa del mondo porti più pubblicità rispetto ad esserlo del proprio gruppo spalla. Saranno infatti proprio gli stessi John Lennon e Paul McCartney a comporre il secondo brano pubblicato su 45 giri per le pietre rotolanti. Brano fondamentale per l’evoluzione del gruppo “I Wanna Be Your Man” dimostra, al contrario della precedente uscita, il vero potenziale della band grazie a distorsioni da garage rock e un assolo per slide guitar eseguito da Jones. Ad anticipare l’uscita del primo album viene pubblicato il primo effettivo successo “Not Fade Away” da un brano di Buddy Holly. The Rolling Stones è un album essenziale per l’epoca ed un istantaneo successo di pubblico. L’importanza del disco si trova nell’aspetto interpretativo dei brani scelti, quasi nella totalità cover di classici blues: un’orgia di suoni ruvidi e di melma sonora che cozza aspramente con il pop inglese stabilmente in testa alle classifiche in quel periodo. Le accellerazioni di “I Just Want To Make Love To You” e la rozzezza di “I’m A King Bee” rendono i Rolling Stones i più negri tra i bianchi bluesmaker. A far da contraltare al lotto di reinterpretazioni è inserita nell’album anche la prima canzone composta interamente da Jagger e Richards, la melodica “Tell Me
 
1965. THE ROLLING STONES No. 2

La seconda parte del 1964 viene spesa tra concerti sempre più seguiti e uscite che proseguono sul mood inaugurato col primo album. Le due cover “It’s All Over Now” e “Little Red Rooster” (rispettivamente da Bobby And Shirley Womack e Willy Dixon) sono degli ottimi successi e riescono a migliorare i risultati dei precedenti singoli. Il secondo album, speculando sulla riuscita dell’esordio, non porta un’evoluzione nel sound della band ma ne ricalca ampiamente lo stile. Nel lotto di cover raccolte in quest’opera spicca “Time Is On My Side”, di chiara matrice soul, che sarà pubblicata con successo su singolo oltreoceano.

1965. OUT OF OUR HEADS

 
 Il ’65 è l’anno di svolta per gli Stones. Iniziano ad essere pubblicati i primi 45 giri a nome Jagger/Richard e il successo aumenta a livello esponenziale di singolo in singolo. Il primo esempio è “The Last Time”, dove una melodia pop e un ipnotico riff eseguito da Jones sono immersi in un wall of sound spectoriano che sfiora la cacofonia. Fondamentale secondo singolo di questa nuova carriera compositiva è “(I Can’t Get No) Satisfaction”, brano di protesta giovanile su una marziale sezione ritmica ballabile e un riff chitarristico filtrato da un celebre effetto fuzz che rimarrà marchio di fabbrica per Richard negli anni a venire. In questi primi 3 anni della band pare che siano gli album ad accompagnare i singoli e non viceversa, come dimostrato dal terzo lavoro, Out Of Our Heads, che concentra per la sua maggior parte altre selezioni di cover (come il potente incipit “She Said Yeah”) ma che lascia intravedere con i brani “Heart Of Stone” e “I’m Free”  un futuro più personale per la band. Il terzo singolo dell’anno è un altro capolavoro: “Get Off Of My Cloud” si colloca tra i brani più pesanti incisi dalla band fino a quel momento. 
 
1966. AFTERMATH

  Citando il titolo del loro album del 1966: le conseguenze del raggiungimento di una consapevolezza dei propri mezzi compositivi porta al compimento del primo album composto nella sua totalità da materiale originale. Aftermath è l’opera dove i Rolling Stones iniziano ad aprire a ventaglio il proprio bagaglio musicale soprattutto grazie alle capacità tecniche di strumentista di Brian Jones ed alla sua smisurata ecletticità. Affiancati a brani più smaccatamente r&b trovano spazio i primi sconfinamenti nella musica pop psichedelica come dimostrato dal sitar simulato di “Mother’s Little Helper”, dal dulcimer in “Lady Jane” e lo xilofono di “Under My Thumb” e “Out Of Time”. Gli Stones più che cambiare completamente pelle sembrano voler immergere il loro blues nell’acido (“I Am Waiting”), è appunto questa contrapposizione a dare fascino al primo capolavoro della loro carriera. Di importanza più storica che musicale da segnalare anche l’inserimento di “Goin’ Home” primo tentativo di una rock band di trasportare su disco una lunga jam session. Importante anche a livello lirico, l’album sembra quasi uno scandaloso concept sulla misoginia. Ad accompagnare l’uscita dell’album vengono pubblicati l’acid blues “19th Nervous Breakdown” ad inizio anno e soprattutto “Paint, It Black” vero inno rock, dove le intuizioni ritmiche di “Satisfaction”, condite con un riff eseguito al sitar da Jones, sono portate a capolavoro da Wyman e Watts fino a concludersi con un finale condensato in un rumoristico e potenzialmente infinito bolero. 

 1967. BETWEEN THE BUTTONS

 

Lo sdoganamento dal rhythm and blues prosegue con i successivi singoli. Il 1966 viene chiuso da "Have You Seen Your Mother, Baby, Standing In The Shadows” che accentua lo straniamento sonoro di Aftermath aggiungendo una sezione di fiati ad un brano garage e proto punk. Ad inaugurare l’anno ufficiale della musica psichedelica la band da alle stampe il singolo con doppia facciata A “Let’s Spend The Night Together / Ruby Tuesday”.  Se il primo e pluricensurato brano è ritmicamente sulle stesse onde di “Paint It, Black” e “Satisfaction”, il lento “Ruby Tuesday”, con la sua commistione di suoni da camera, ci trasporta nel mondo di Between The Buttons. I 12 brani del disco sono una vetrina per le composizioni di Jagger/Richard e le esibizioni di Jones che, come il migliore dei session man si occupa di tutte le strumentazioni più esotiche presenti nell’album. Gli scarni brani del duo compositivo sono rivestite da fisarmoniche (“Back Street Girl”), sezioni di fiati (“Something Happened To Me Yesterday”), xilofoni (“Yesterday Papers”), theremin (“Please Go Home”) e molti altri strumenti che rendono quest’album tra i più eccentrici del suo periodo. Questa sua forzata ricercatezza pare però una corruzione dei veri Stones che, in questo momento della loro metamorfosi, non sembrano più volgersi ai classici americani del blues ma ai loro coetanei colleghi (Revoler dei Beatles, Face To Face dei Kinks e il coevo Da Capo dei Love) facendo in parte perdere la loro originalità e le proprie caratteristiche peculiari di oscura blues band.
 
1967. THEIR SATANIC MAJESTIES REQUEST

 
Non consapevoli di questo, Jagger e compagni proseguono per la loro strada e realizzano il proprio manifesto lisergico. Minati da problemi interni tra il gruppo ed esterni con la legge si tuffano di pancia in un mare (evitando di dire piscina) di acido. Anticipato da “We Love You” (un aperto ringraziamento ai propri sostenitori dopo i problemi di incarcerazione per possesso di droga, nonché idealmente una loro “Tomorrow Never Knows”), Their Satanic Majesties Request, primo lavoro non prodotto da Oldham, segue le mode dell’estate psichedelica sessantasettina in tutto e per tutto. Accusato erroneamente di essere una poco felice risposta a Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band questo album pesca al contrario a piene mani dalle dirette fonti di quell’opera beatlesiana. I veri punti di riferimento non sono i quattro di Liverpool ma Freak Out! dei Mothers Of Invention e The Piper At The Gates Of Dawn dei Pink Floyd e i loro primi 45 giri. Se da un lato la sensazione è quella di un opera non completamente realizzata dall’altro questa auto indulgenza ha portato a compimento di quello che, nella propria inconsapevolezza, è probabilmente il primo album  completamente space rock. A prova di questo “2000 Light Years From Home”, “Citadel”, “2000 Man” e la pur prolissa “Sing This All Together (See What Happens)” rendono a pieno una personale seppur naif idea di viaggio interstellare. Capolavoro dell’album è il rock da camera “She’s A Rainbow” degna conclusione della loro momentanea escursione nello spazio psichedelico.  
 
1968. BEGGARS BANQUET


Quasi come per rigetto alla corruzione sonora dei due anni precedenti, e aiutati dalle esperte mani di Jimmy Miller alla produzione, le pietre tornano a rotolare verso le proprie radici. Il cambiamento è radicale e darà inizio alla propria stagione dorata. Nemmeno definibile come brano di passaggio o ponte tra due periodi storici, “Jumpin’ Jack Flash” è proprio un taglio netto col recente passato. Un blues sprofondante nel nascente hard rock. Una perfezione sonora e compositiva che ha fatto sentire il suo peso almeno per i successivi trent’anni di musica, “Jumpin’ Jack Flash” è la storia dei Rolling Stones condensata in un unico brano, è per iperbole la condensazione del rock: un intro di chitarra che vent’anni dopo il grunge farà proprio (o per paradossale inversione erano gli Stones a suonare già grunge nel ’68?), un riff tra i più riusciti dell’hard rock e un ritornello dove un pesantissimo rhythm and blues stupra le poche reminiscenze di musica psichedelica inconsciamente rimaste nel gruppo. Sulla stessa lunghezza d’onda troviamo nell’album l’anthem di rivolta sociale “Street Fighing Man” nel quale Jagger veste i panni di fomentatore di folle per poi tramutarsi in un bianco predicatore di messe nere per la satanica “Sympathy For The Devil”. In Beggars Banquet la band riscopre se stessa rintracciando le proprie fonti ispirative andando a scavare nelle terre del rock e della musica americana senza mescolarle, anzi allestendone un  filologico tributo di ortodossia musicale. Così alle sopra citate si aggiunge il country acustico di “Factory Girl”, il blues di “Parachute Woman” e il folk elettrico dilaniato e dylaniano di “Jigsaw Puzzle”. I due lenti dell’album sono il pianto della slide guitar di Jones per “No Expectation” e la conclusiva “Salt Of The Earth” che fa da prova generale per l’epigone pari ruolo del disco successivo: “You Can’t Always Get What You Want”. Beggars Banquet è, insieme ai coetanei John Wesley Harding di Bob Dylan e Sweetheart Of The Rodeo dei Byrds, uno dei più onesti omaggi all’America rurale, sicuramente il miglior lavoro prodotto da un gruppo non americano. È paradossalmente con questo ritorno ai suoni che hanno caratterizzato gli Stones d’inizio carriera a segnare il rapido allontanamento di Jones dalla band. Con il radicalizzarsi del suono i suoi contributi risultano minimi: bloccato da forti problemi di droga che gli impediranno di espatriare per le tournèe all’estero e represso da gelosie verso l’incontrastata leadership di Jagger e Richard data dalle sue incapacità compositive lascia il gruppo nella primavera del ’69. Morirà pochi giorni dopo annegato nella piscina della sua villa.   
 
1969. LET IT BLEED

 

Continuando a scavare nelle terre americane dei loro padri putativi le mani iniziano a sanguinare e non spaventati da questo i Rolling Stones lasciano che sanguinino copiosamente andando sempre più a fondo nella loro speleologia musicale. Invece di morire dissanguata la band compie una trasfusione ancora più dichiarata tra Inghilterra e America. Let It Bleed è uno dei rari casi musicali dove una copia dell’album precedente non risulta ridondante e ripetitiva. Ad aprire le danze è il singolo “Honky Tonk Women” che col suo riff iniziale e il ritornello lascivo sarà ispiratore di molto hard rock a venire. Una versione spogliata del suo vestito elettrico è presente nell’album con l’emblematico titolo di “Country Honk”. L’aspetto acustico è molto importante in Let It Bleed: ascoltare l'essenziale versione del brano di Robert Johnson “Love In Vain” e la conclusiva “You Can’t Always Get What You Want”. Questo brano può farsi vero manifesto delle ricerche archeologiche degli Stones: se il rock ‘n’ roll è formalmente fatto nascere dalla comunione tra il country e il blues, con questa canzone Jagger e Richard vanno oltre e creano una commistione tra il coro iniziale di puritane voci bianche e il finale gospel nero in un ballo multirazziale che ci trasporta in un impensabile girotondo tra ku kux klan e schiavi in una piantagione di cotone. Speculare a quest’idea è l’iniziale “Gimme Shelter”, dove una dolorante voce femminile trova confortevole rifugio in quella sgraziata e rabbiosa di Jagger, e la titletrack “Let It Bleed” direttamente estrapolata da un anacronistico saloon.


  1971. STICKY FINGERS

 
Lungi dal fermarsi con il cambio di etichetta discografica gli Stones, col volgere del decennio, rimangono su livelli eccelsi. Il sangue stantio sulle dita diventa appiccicoso e ricopre, se possibile, ogni composizione di un’aura ancora maggiore di morte. A sostituire Brian Jones alla chitarra è assunto in pianta stabile il virtuoso Mick Taylor che aveva solo parzialmente partecipato a Let It Bleed. Morte, droga, sesso: Sticky Fingers fa sedere tutto il banchetto di mendicanti lasciati sanguinare nei due dischi precedenti su una sedia elettrica e lo fa friggere ad alto voltaggio. “Brown Sugar”, “Sway”, “Can’t You Hear Me Knocking”, “Bitch” sono strade già calpestate e usurate dagli Stones (e ormai non solo da loro), ma sono percorse con un’urgenza comunicativa unica. A testimonianza di questo è il fatto che i Rolling Stones sono l’ultimo gruppo rimasto della prima british invasion, insieme ai soli Who, a riuscire a rivaleggiare sia a livello discografico, sia in sede live con i colleghi della nuova generazione (recuperare Get Yer Ya-Yas Out! The Rolling Stones In Concert). Altri notevoli brani, tutti cosparsi di una cupezza senza pari, sono “Sister Morphine” tra i capolavori del disco grazie anche alla slide prestata da Ry Cooder, e il duo sudista “Wild Horses”/“Dead Flowers” il cui ritmo country da un lato ricorda l'amico Gram Parsons (fondamentale per la composizione del Rodeo dei Byrds e mente dei Flying Burrito Brothers), mentre dall'altro ne anticipa di qualche anno il revival dei suoi aspetti più commerciali.   
 
1972. EXILE ON MAIN ST.


Il doppio Lp Exile On Main St. è un summa della poetica musicale di Richard e Jagger degli ultimi quattro anni. In questi due dischi sono condensate tutte le anime dei tre album precedenti. Come lasciato intuire dalla copertina, quest’album è un collage delle ispirazioni della band. L’iniziale “Rocks Off”, “Rip This Joint”, “Happy” (cantata da Richard), “All Down The Line” entrano a pieno titolo tra i loro anthem rock ‘n’ roll. Il country è ancora presente nella spogliata e minimalista “Sweet Black Angel” e nella più canonica “Sweet Virginia” mentre le meditazioni soul si ritrovano in “Shine A Light” e “Lovin’ Cup”. Filtro per tutte queste influenze è “Tumbling Dice” che col suo andamento smussa i vari spigoli dell’opera. Questo disco rimarrà l’ultimo vero capolavoro della band e un testamento per i Rolling Stones che dai dischi successivi rimarranno incatenati ai propri personaggi e al proprio immobilismo sonoro, pur riuscendo a non cadere mai nella più deprecabile mediocrità.  

 
1973. GOATS HEAD SOUP


Primo cenno dell’inizio della decadenza è dato da Goats Head Soup, album dove  il manierismo interpretativo comincia a intravedersi tra un solco e l’altro del vinile. Gli Stones percepiscono il peso del decennio di carriera alle spalle ed infatti l’unico membro del gruppo effettivamente in piena forma pare l’ultimo arrivato Mick Taylor che salva molti pezzi con i suoi accompagnamenti ed assoli spesso filtrati da un onnipresente, a volte fino alla ridondanza, wah wah. Le canzoni in questione sono “Doo Doo Doo Doo (Heartbreaker)”, “Dancing With Mr. D” e “1000 Years Ago” che in parte tengono vivo lo spirito delle glorie passate. Discorso a parte per la lenta “Angie”, pop song che mantiene vivo il gruppo anche sotto l’aspetto meramente commerciale. 
 
1974. IT’S ONLY ROCK ‘N’ ROLL




L’album successivo prosegue la strada della discesa avviata l’anno precedente. Jagger e Richard non sembrano più interessati alla musica ma a tener viva la loro immagine di rock (super)star. Questo disco è una conseguenza di questo approccio compositivo. I brani a evitare la discesa nel baratro sono pochi. Quasi per giustificarsi premono per farci sapere subito che il loro è solo rock ‘n’ roll: il vero problema non è quello che suoni, il problema è che suonandolo così (a loro) possa ancora piacere. “It’s Only Rock ‘n’ Roll (But I Like It)” è mera routine in paragone ai singoli che hanno fatto la storia della band e in paragone anche ai brani minori. Le uniche due ancore di salvezza sono poste a conclusione delle due facciate. Sulla prima troviamo “Time Waits For No One”: una normale ballad ampiamente risollevata da un finale degno di “Can’t You Hear Me Knockin’” ancora grazie a Taylor. A rigor mortis del disco è invece posta “Fingerprint File” che anticipa i suoni funky e caraibici che la band farà propri con la successiva pubblicazione. Condizionato anche dall’assenza di Jimmy Miller in cabina di regia, oltre che nelle composizioni il disco pecca anche nella qualità dei suoni che risultano spesso troppo ovattati impossibilitati ad esplodere a dovere come dimostrato dalla cover “Ain’t Too Proud To Beg”. Dopo il passo falso di It’s Only Rock ‘n’ Roll Taylor lascia la band per iniziare la carriera solista.
 
1976. BLACK AND BLUE




A sostituire Taylor viene reclutato Ronnie Wood, già Jeff Beck Group e Faces. Black And Blue, come richiamato dal suo stesso titolo, aumenta il frangente di ricerca sulla musica nera. Si riparte da dove ci si era fermati con “Fingerprint File” cavalcando sonorità ascese alle classifiche transatlantiche in quel periodo. Jagger e Richard dal sud degli States ora  volgono lo sguardo ancora più in basso verso i Caraibi. Insieme a canti gospel, blues e soul troviamo anche il reggae e il funky. “Hot Stuff” e “Hey Negrita” sono sicuramente qualcosa di differente da quello fatto in precedenza ma il tutto non riesce altro che risultare derivativo e posticcio.  L’unica rilevanza di questo disco è l’aver anticipato di qualche anno lo stesso percorso che intraprenderanno molte punk band ad inizio anni ’80. Il lento del disco è “Fool To Cry”, un ottimo soul rovinato da un arrangiamento senza mordente.

1978. SOME GIRLS



Con sorpresa gli Stones riescono a dare un ultimo colpo di coda a fine decennio. Some Girls pesca nell’ultimo calderone mancante nell’infinito almanacco della black music composto dalla band: la disco music. Se nella teoria questa scelta ha tutte le carte per rivelarsi sbagliata, il risultato alla prova su disco è più che dignitoso. “Miss You” rinvigorisce la carriera con un ritmo che da un lato strizza l’occhio alle nuove mode e dall’altro è diretta conseguenza evolutiva del ballabile di “Satisfaction”. Per la rimanenza il disco si snoda tra blues di livello mediamente superiore a quelli dei dischi precedenti (la cover di “Just My Immagination”, “Some Girls”), buone cavalcate rock ‘n’ roll (“Lies”, “Respectable”), lenti tra i migliori della loro ultima parte di carriera (“Beast Of Burden” e la country "Far Away Eyes") e se pensiamo che a chiudere l’album tra chitarre new wave spunta anche qualche passaggio rap di Jagger (“Shattered”) ci rendiamo conto che ora il cerchio con la musica nera è realmente completo. Il tutto da l’idea di un disco di commiato, l’ultimo consigliabile nella loro infinita carriera.


 Discografia UK

Lp:
1964 – The Rolling Stones [***]
1965 – The Rolling Stones No. 2 [**]
1965 – Out Of Our Heads [**1/2]
1966 – Aftermath [***1/2]
1967 – Between The Buttons [***]
1967 – Their Satanic Majesties Request [***]
1968 – Beggars Banquet [*****]
1969 – Let It Bleed [****]
1971 – Sticky Fingers [****]
1972 – Exile On Main St. [****]
1973 – Goats Head Soup [**]
1974 – It’s Only Rock ‘n’ Roll [**]
1976 – Black And Blue [*1/2]
1978 – Some Girls [**1/2]


 Singoli / Ep:
Come On - 1963
I Wanna Be Your Man - 1963
 The Rolling Stones (Ep) - 1964
Not Fade Away - 1964
It's All Over Now - 1964
 Five By Five (Ep) - 1964
Little Red Rooster - 1964
The Last Time - 1965
(I Can't Get No) Satisfaction - 1965
 Got Live If You Want It (Ep) - 1965
Get Off Of My Cloud - 1965
19th Nervous Breakdown - 1966
Paint It, Black - 1966
Have You Seen Your Mother, Baby, Standing In The Shadows - 1966
Let's Spend The Night Together / Ruby Tuesday - 1967
We Love You - 1967
Jumpin' Jack Flash - 1968
Honky Tonk Women - 1969
Brown Sugar - 1971
Tumbling Dice - 1972
Angie - 1973
It's Only Rock 'n' Roll (But I Like It) - 1974
Fool To Cry - 1976
Miss You - 1978
Respectable - 1978
 

Live:
1970 - Get Yer Ya-Yas Out! The Rolling Stones In Concert
1977 - Love You Live