Il primo nucleo dei Rolling Stones è composto da Brian Jones, Keith Richard, Mick Jagger e Ian Stewart. Siamo nella Londra del ‘62 e attorno al gruppo si interscambiano molti musicisti tra i quali anche Dick Taylor che abbandonerà quasi subito le neonate pietre per formare i Pretty Things. La formazione vede il suo completamento con l’arrivo della sezione ritmica composta da Bill Wyman e Charlie Watts rispettivamente al basso e alla batteria e con l’esclusione di Stewart da membro effettivo della band a manager e collaboratore di studio. Nel primo periodo della carriera il leader della band è Jones, eclettico chitarrista affascinato da blues e r&b americano, che li guiderà nella direzione artistica e nella scelta del materiale da eseguire nei concerti. Più le composizioni del cantante Jagger e del chitarrista Richard diventeranno preponderanti più la leadership di Jones andrà svanendo fino ad auto annientarsi completamente.
L'epoca più importante della band è compresa tra la sua fondazione nel ‘62 e la metà degli anni ’70 e può essere tematicamente divisa in tre parti: la prima, improntata sul rhythm and blues, che dagli esordi del ’63 prosegue fino ai primi fondamentali singoli del ’65; la seconda che comprende il biennio ’66/’67 incorporando di disco in disco in quantità sempre più presente elementi psichedelici; e dal 1968 in poi tornando alle radici della musica sia nera che bianca con un americanismo eterogeneo che si staglia tra il blues, il soul ed il country.
1964. THE ROLLING STONES
Dopo alcuni concerti in locali londinesi il gruppo è notato dal giovane produttore Adrew Loog Oldham che interessato al loro sound, molto distante dallo skiffle e il merseybeat di moda in quel periodo grazie all’ascesa di gruppi come Beatles, Jerry And The Peacemaker e Hollies, procura alla band un contratto con la Decca Records. La prima produzione discografica è il singolo del 1963 “Come On”, una cover di Chuck Berry. I Rolling Stones, coadiuvati da Oldham, iniziano ad essere visti dalla stampa del settore come la risposta sporca e brutale al pop in quel periodo più accomodante dei Beatles. Questo paragone, o addirittura rivalità, passerà alla storia musicale ed entrerà a far parte anche del linguaggio comune, pur essendo una mera invenzione giornalistica nonché un falso storico. Le due band sono nate da generi musicali ben distinti ed oltretutto per tutto il decennio intrecceranno le proprie carriere con reciproci scambi collaborativi. Se ai tempi si avesse voluto seriamente parlare di rivalità o epigoni si sarebbero dovuti citare gli Yardbirds, gruppo che sostituirà gli Stones nel circuito underground londinese quando questi diventeranno delle celebrità. È comunque certo che farsi nemesi della band più famosa del mondo porti più pubblicità rispetto ad esserlo del proprio gruppo spalla. Saranno infatti proprio gli stessi John Lennon e Paul McCartney a comporre il secondo brano pubblicato su 45 giri per le pietre rotolanti. Brano fondamentale per l’evoluzione del gruppo “I Wanna Be Your Man” dimostra, al contrario della precedente uscita, il vero potenziale della band grazie a distorsioni da garage rock e un assolo per slide guitar eseguito da Jones. Ad anticipare l’uscita del primo album viene pubblicato il primo effettivo successo “Not Fade Away” da un brano di Buddy Holly. The Rolling Stones è un album essenziale per l’epoca ed un istantaneo successo di pubblico. L’importanza del disco si trova nell’aspetto interpretativo dei brani scelti, quasi nella totalità cover di classici blues: un’orgia di suoni ruvidi e di melma sonora che cozza aspramente con il pop inglese stabilmente in testa alle classifiche in quel periodo. Le accellerazioni di “I Just Want To Make Love To You” e la rozzezza di “I’m A King Bee” rendono i Rolling Stones i più negri tra i bianchi bluesmaker. A far da contraltare al lotto di reinterpretazioni è inserita nell’album anche la prima canzone composta interamente da Jagger e Richards, la melodica “Tell Me”
1965. THE ROLLING STONES No. 2
La seconda parte del 1964 viene spesa tra concerti sempre più seguiti e uscite che proseguono sul mood inaugurato col primo album. Le due cover “It’s All Over Now” e “Little Red Rooster” (rispettivamente da Bobby And Shirley Womack e Willy Dixon) sono degli ottimi successi e riescono a migliorare i risultati dei precedenti singoli. Il secondo album, speculando sulla riuscita dell’esordio, non porta un’evoluzione nel sound della band ma ne ricalca ampiamente lo stile. Nel lotto di cover raccolte in quest’opera spicca “Time Is On My Side”, di chiara matrice soul, che sarà pubblicata con successo su singolo oltreoceano.
1965. OUT OF OUR HEADS
Il ’65 è l’anno di svolta per gli Stones. Iniziano ad essere pubblicati i primi 45 giri a nome Jagger/Richard e il successo aumenta a livello esponenziale di singolo in singolo. Il primo esempio è “The Last Time”, dove una melodia pop e un ipnotico riff eseguito da Jones sono immersi in un wall of sound spectoriano che sfiora la cacofonia. Fondamentale secondo singolo di questa nuova carriera compositiva è “(I Can’t Get No) Satisfaction”, brano di protesta giovanile su una marziale sezione ritmica ballabile e un riff chitarristico filtrato da un celebre effetto fuzz che rimarrà marchio di fabbrica per Richard negli anni a venire. In questi primi 3 anni della band pare che siano gli album ad accompagnare i singoli e non viceversa, come dimostrato dal terzo lavoro, Out Of Our Heads, che concentra per la sua maggior parte altre selezioni di cover (come il potente incipit “She Said Yeah”) ma che lascia intravedere con i brani “Heart Of Stone” e “I’m Free” un futuro più personale per la band. Il terzo singolo dell’anno è un altro capolavoro: “Get Off Of My Cloud” si colloca tra i brani più pesanti incisi dalla band fino a quel momento.
1966. AFTERMATH
Citando il titolo del loro album del 1966: le conseguenze del raggiungimento di una consapevolezza dei propri mezzi compositivi porta al compimento del primo album composto nella sua totalità da materiale originale. Aftermath è l’opera dove i Rolling Stones iniziano ad aprire a ventaglio il proprio bagaglio musicale soprattutto grazie alle capacità tecniche di strumentista di Brian Jones ed alla sua smisurata ecletticità. Affiancati a brani più smaccatamente r&b trovano spazio i primi sconfinamenti nella musica pop psichedelica come dimostrato dal sitar simulato di “Mother’s Little Helper”, dal dulcimer in “Lady Jane” e lo xilofono di “Under My Thumb” e “Out Of Time”. Gli Stones più che cambiare completamente pelle sembrano voler immergere il loro blues nell’acido (“I Am Waiting”), è appunto questa contrapposizione a dare fascino al primo capolavoro della loro carriera. Di importanza più storica che musicale da segnalare anche l’inserimento di “Goin’ Home” primo tentativo di una rock band di trasportare su disco una lunga jam session. Importante anche a livello lirico, l’album sembra quasi uno scandaloso concept sulla misoginia. Ad accompagnare l’uscita dell’album vengono pubblicati l’acid blues “19th Nervous Breakdown” ad inizio anno e soprattutto “Paint, It Black” vero inno rock, dove le intuizioni ritmiche di “Satisfaction”, condite con un riff eseguito al sitar da Jones, sono portate a capolavoro da Wyman e Watts fino a concludersi con un finale condensato in un rumoristico e potenzialmente infinito bolero.
1967. BETWEEN THE BUTTONS
Lo sdoganamento dal rhythm and blues prosegue con i successivi singoli. Il 1966 viene chiuso da "Have You Seen Your Mother, Baby, Standing In The Shadows” che accentua lo straniamento sonoro di Aftermath aggiungendo una sezione di fiati ad un brano garage e proto punk. Ad inaugurare l’anno ufficiale della musica psichedelica la band da alle stampe il singolo con doppia facciata A “Let’s Spend The Night Together / Ruby Tuesday”. Se il primo e pluricensurato brano è ritmicamente sulle stesse onde di “Paint It, Black” e “Satisfaction”, il lento “Ruby Tuesday”, con la sua commistione di suoni da camera, ci trasporta nel mondo di Between The Buttons. I 12 brani del disco sono una vetrina per le composizioni di Jagger/Richard e le esibizioni di Jones che, come il migliore dei session man si occupa di tutte le strumentazioni più esotiche presenti nell’album. Gli scarni brani del duo compositivo sono rivestite da fisarmoniche (“Back Street Girl”), sezioni di fiati (“Something Happened To Me Yesterday”), xilofoni (“Yesterday Papers”), theremin (“Please Go Home”) e molti altri strumenti che rendono quest’album tra i più eccentrici del suo periodo. Questa sua forzata ricercatezza pare però una corruzione dei veri Stones che, in questo momento della loro metamorfosi, non sembrano più volgersi ai classici americani del blues ma ai loro coetanei colleghi (Revoler dei Beatles, Face To Face dei Kinks e il coevo Da Capo dei Love) facendo in parte perdere la loro originalità e le proprie caratteristiche peculiari di oscura blues band.
1967. THEIR SATANIC MAJESTIES REQUEST
Non consapevoli di questo, Jagger e compagni proseguono per la loro strada e realizzano il proprio manifesto lisergico. Minati da problemi interni tra il gruppo ed esterni con la legge si tuffano di pancia in un mare (evitando di dire piscina) di acido. Anticipato da “We Love You” (un aperto ringraziamento ai propri sostenitori dopo i problemi di incarcerazione per possesso di droga, nonché idealmente una loro “Tomorrow Never Knows”), Their Satanic Majesties Request, primo lavoro non prodotto da Oldham, segue le mode dell’estate psichedelica sessantasettina in tutto e per tutto. Accusato erroneamente di essere una poco felice risposta a Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band questo album pesca al contrario a piene mani dalle dirette fonti di quell’opera beatlesiana. I veri punti di riferimento non sono i quattro di Liverpool ma Freak Out! dei Mothers Of Invention e The Piper At The Gates Of Dawn dei Pink Floyd e i loro primi 45 giri. Se da un lato la sensazione è quella di un opera non completamente realizzata dall’altro questa auto indulgenza ha portato a compimento di quello che, nella propria inconsapevolezza, è probabilmente il primo album completamente space rock. A prova di questo “2000 Light Years From Home”, “Citadel”, “2000 Man” e la pur prolissa “Sing This All Together (See What Happens)” rendono a pieno una personale seppur naif idea di viaggio interstellare. Capolavoro dell’album è il rock da camera “She’s A Rainbow” degna conclusione della loro momentanea escursione nello spazio psichedelico.
1968. BEGGARS BANQUET
Quasi come per rigetto alla corruzione sonora dei due anni precedenti, e aiutati dalle esperte mani di Jimmy Miller alla produzione, le pietre tornano a rotolare verso le proprie radici. Il cambiamento è radicale e darà inizio alla propria stagione dorata. Nemmeno definibile come brano di passaggio o ponte tra due periodi storici, “Jumpin’ Jack Flash” è proprio un taglio netto col recente passato. Un blues sprofondante nel nascente hard rock. Una perfezione sonora e compositiva che ha fatto sentire il suo peso almeno per i successivi trent’anni di musica, “Jumpin’ Jack Flash” è la storia dei Rolling Stones condensata in un unico brano, è per iperbole la condensazione del rock: un intro di chitarra che vent’anni dopo il grunge farà proprio (o per paradossale inversione erano gli Stones a suonare già grunge nel ’68?), un riff tra i più riusciti dell’hard rock e un ritornello dove un pesantissimo rhythm and blues stupra le poche reminiscenze di musica psichedelica inconsciamente rimaste nel gruppo. Sulla stessa lunghezza d’onda troviamo nell’album l’anthem di rivolta sociale “Street Fighing Man” nel quale Jagger veste i panni di fomentatore di folle per poi tramutarsi in un bianco predicatore di messe nere per la satanica “Sympathy For The Devil”. In Beggars Banquet la band riscopre se stessa rintracciando le proprie fonti ispirative andando a scavare nelle terre del rock e della musica americana senza mescolarle, anzi allestendone un filologico tributo di ortodossia musicale. Così alle sopra citate si aggiunge il country acustico di “Factory Girl”, il blues di “Parachute Woman” e il folk elettrico dilaniato e dylaniano di “Jigsaw Puzzle”. I due lenti dell’album sono il pianto della slide guitar di Jones per “No Expectation” e la conclusiva “Salt Of The Earth” che fa da prova generale per l’epigone pari ruolo del disco successivo: “You Can’t Always Get What You Want”. Beggars Banquet è, insieme ai coetanei John Wesley Harding di Bob Dylan e Sweetheart Of The Rodeo dei Byrds, uno dei più onesti omaggi all’America rurale, sicuramente il miglior lavoro prodotto da un gruppo non americano. È paradossalmente con questo ritorno ai suoni che hanno caratterizzato gli Stones d’inizio carriera a segnare il rapido allontanamento di Jones dalla band. Con il radicalizzarsi del suono i suoi contributi risultano minimi: bloccato da forti problemi di droga che gli impediranno di espatriare per le tournèe all’estero e represso da gelosie verso l’incontrastata leadership di Jagger e Richard data dalle sue incapacità compositive lascia il gruppo nella primavera del ’69. Morirà pochi giorni dopo annegato nella piscina della sua villa.
1969. LET IT BLEED
Continuando a scavare nelle terre americane dei loro padri putativi le mani iniziano a sanguinare e non spaventati da questo i Rolling Stones lasciano che sanguinino copiosamente andando sempre più a fondo nella loro speleologia musicale. Invece di morire dissanguata la band compie una trasfusione ancora più dichiarata tra Inghilterra e America. Let It Bleed è uno dei rari casi musicali dove una copia dell’album precedente non risulta ridondante e ripetitiva. Ad aprire le danze è il singolo “Honky Tonk Women” che col suo riff iniziale e il ritornello lascivo sarà ispiratore di molto hard rock a venire. Una versione spogliata del suo vestito elettrico è presente nell’album con l’emblematico titolo di “Country Honk”. L’aspetto acustico è molto importante in Let It Bleed: ascoltare l'essenziale versione del brano di Robert Johnson “Love In Vain” e la conclusiva “You Can’t Always Get What You Want”. Questo brano può farsi vero manifesto delle ricerche archeologiche degli Stones: se il rock ‘n’ roll è formalmente fatto nascere dalla comunione tra il country e il blues, con questa canzone Jagger e Richard vanno oltre e creano una commistione tra il coro iniziale di puritane voci bianche e il finale gospel nero in un ballo multirazziale che ci trasporta in un impensabile girotondo tra ku kux klan e schiavi in una piantagione di cotone. Speculare a quest’idea è l’iniziale “Gimme Shelter”, dove una dolorante voce femminile trova confortevole rifugio in quella sgraziata e rabbiosa di Jagger, e la titletrack “Let It Bleed” direttamente estrapolata da un anacronistico saloon.
1971. STICKY FINGERS
Lungi dal fermarsi con il cambio di etichetta discografica gli Stones, col volgere del decennio, rimangono su livelli eccelsi. Il sangue stantio sulle dita diventa appiccicoso e ricopre, se possibile, ogni composizione di un’aura ancora maggiore di morte. A sostituire Brian Jones alla chitarra è assunto in pianta stabile il virtuoso Mick Taylor che aveva solo parzialmente partecipato a Let It Bleed. Morte, droga, sesso: Sticky Fingers fa sedere tutto il banchetto di mendicanti lasciati sanguinare nei due dischi precedenti su una sedia elettrica e lo fa friggere ad alto voltaggio. “Brown Sugar”, “Sway”, “Can’t You Hear Me Knocking”, “Bitch” sono strade già calpestate e usurate dagli Stones (e ormai non solo da loro), ma sono percorse con un’urgenza comunicativa unica. A testimonianza di questo è il fatto che i Rolling Stones sono l’ultimo gruppo rimasto della prima british invasion, insieme ai soli Who, a riuscire a rivaleggiare sia a livello discografico, sia in sede live con i colleghi della nuova generazione (recuperare Get Yer Ya-Yas Out! The Rolling Stones In Concert). Altri notevoli brani, tutti cosparsi di una cupezza senza pari, sono “Sister Morphine” tra i capolavori del disco grazie anche alla slide prestata da Ry Cooder, e il duo sudista “Wild Horses”/“Dead Flowers” il cui ritmo country da un lato ricorda l'amico Gram Parsons (fondamentale per la composizione del Rodeo dei Byrds e mente dei Flying Burrito Brothers), mentre dall'altro ne anticipa di qualche anno il revival dei suoi aspetti più commerciali.
1972. EXILE ON MAIN ST.
Il doppio Lp Exile On Main St. è un summa della poetica musicale di Richard e Jagger degli ultimi quattro anni. In questi due dischi sono condensate tutte le anime dei tre album precedenti. Come lasciato intuire dalla copertina, quest’album è un collage delle ispirazioni della band. L’iniziale “Rocks Off”, “Rip This Joint”, “Happy” (cantata da Richard), “All Down The Line” entrano a pieno titolo tra i loro anthem rock ‘n’ roll. Il country è ancora presente nella spogliata e minimalista “Sweet Black Angel” e nella più canonica “Sweet Virginia” mentre le meditazioni soul si ritrovano in “Shine A Light” e “Lovin’ Cup”. Filtro per tutte queste influenze è “Tumbling Dice” che col suo andamento smussa i vari spigoli dell’opera. Questo disco rimarrà l’ultimo vero capolavoro della band e un testamento per i Rolling Stones che dai dischi successivi rimarranno incatenati ai propri personaggi e al proprio immobilismo sonoro, pur riuscendo a non cadere mai nella più deprecabile mediocrità.
Con sorpresa gli Stones riescono a dare un ultimo colpo di coda a fine decennio. Some Girls pesca nell’ultimo calderone mancante nell’infinito almanacco della black music composto dalla band: la disco music. Se nella teoria questa scelta ha tutte le carte per rivelarsi sbagliata, il risultato alla prova su disco è più che dignitoso. “Miss You” rinvigorisce la carriera con un ritmo che da un lato strizza l’occhio alle nuove mode e dall’altro è diretta conseguenza evolutiva del ballabile di “Satisfaction”. Per la rimanenza il disco si snoda tra blues di livello mediamente superiore a quelli dei dischi precedenti (la cover di “Just My Immagination”, “Some Girls”), buone cavalcate rock ‘n’ roll (“Lies”, “Respectable”), lenti tra i migliori della loro ultima parte di carriera (“Beast Of Burden” e la country "Far Away Eyes") e se pensiamo che a chiudere l’album tra chitarre new wave spunta anche qualche passaggio rap di Jagger (“Shattered”) ci rendiamo conto che ora il cerchio con la musica nera è realmente completo. Il tutto da l’idea di un disco di commiato, l’ultimo consigliabile nella loro infinita carriera.
1973. GOATS HEAD SOUP
Primo cenno dell’inizio della decadenza è dato da Goats Head Soup, album dove il manierismo interpretativo comincia a intravedersi tra un solco e l’altro del vinile. Gli Stones percepiscono il peso del decennio di carriera alle spalle ed infatti l’unico membro del gruppo effettivamente in piena forma pare l’ultimo arrivato Mick Taylor che salva molti pezzi con i suoi accompagnamenti ed assoli spesso filtrati da un onnipresente, a volte fino alla ridondanza, wah wah. Le canzoni in questione sono “Doo Doo Doo Doo (Heartbreaker)”, “Dancing With Mr. D” e “1000 Years Ago” che in parte tengono vivo lo spirito delle glorie passate. Discorso a parte per la lenta “Angie”, pop song che mantiene vivo il gruppo anche sotto l’aspetto meramente commerciale.
1974. IT’S ONLY ROCK ‘N’ ROLL
L’album successivo prosegue la strada della discesa avviata l’anno precedente. Jagger e Richard non sembrano più interessati alla musica ma a tener viva la loro immagine di rock (super)star. Questo disco è una conseguenza di questo approccio compositivo. I brani a evitare la discesa nel baratro sono pochi. Quasi per giustificarsi premono per farci sapere subito che il loro è solo rock ‘n’ roll: il vero problema non è quello che suoni, il problema è che suonandolo così (a loro) possa ancora piacere. “It’s Only Rock ‘n’ Roll (But I Like It)” è mera routine in paragone ai singoli che hanno fatto la storia della band e in paragone anche ai brani minori. Le uniche due ancore di salvezza sono poste a conclusione delle due facciate. Sulla prima troviamo “Time Waits For No One”: una normale ballad ampiamente risollevata da un finale degno di “Can’t You Hear Me Knockin’” ancora grazie a Taylor. A rigor mortis del disco è invece posta “Fingerprint File” che anticipa i suoni funky e caraibici che la band farà propri con la successiva pubblicazione. Condizionato anche dall’assenza di Jimmy Miller in cabina di regia, oltre che nelle composizioni il disco pecca anche nella qualità dei suoni che risultano spesso troppo ovattati impossibilitati ad esplodere a dovere come dimostrato dalla cover “Ain’t Too Proud To Beg”. Dopo il passo falso di It’s Only Rock ‘n’ Roll Taylor lascia la band per iniziare la carriera solista.
1976. BLACK AND BLUE
A sostituire Taylor viene reclutato Ronnie Wood, già Jeff Beck Group e Faces. Black And Blue, come richiamato dal suo stesso titolo, aumenta il frangente di ricerca sulla musica nera. Si riparte da dove ci si era fermati con “Fingerprint File” cavalcando sonorità ascese alle classifiche transatlantiche in quel periodo. Jagger e Richard dal sud degli States ora volgono lo sguardo ancora più in basso verso i Caraibi. Insieme a canti gospel, blues e soul troviamo anche il reggae e il funky. “Hot Stuff” e “Hey Negrita” sono sicuramente qualcosa di differente da quello fatto in precedenza ma il tutto non riesce altro che risultare derivativo e posticcio. L’unica rilevanza di questo disco è l’aver anticipato di qualche anno lo stesso percorso che intraprenderanno molte punk band ad inizio anni ’80. Il lento del disco è “Fool To Cry”, un ottimo soul rovinato da un arrangiamento senza mordente.
1978. SOME GIRLS

Discografia UK
Lp:
1964 – The Rolling Stones [***]
1965 – The Rolling Stones No. 2 [**]
1965 – Out Of Our Heads [**1/2]
1966 – Aftermath [***1/2]
1967 – Between The Buttons [***]
1967 – Their Satanic Majesties Request [***]
1969 – Let It Bleed [****]
1971 – Sticky Fingers [****]
1972 – Exile On Main St. [****]
1973 – Goats Head Soup [**]
1974 – It’s Only Rock ‘n’ Roll [**]
1976 – Black And Blue [*1/2]
1978 – Some Girls [**1/2]
Singoli / Ep:
I Wanna Be Your Man - 1963
The Rolling Stones (Ep) - 1964
Not Fade Away - 1964
Not Fade Away - 1964
It's All Over Now - 1964
Five By Five (Ep) - 1964
Five By Five (Ep) - 1964
Little Red Rooster - 1964
The Last Time - 1965
(I Can't Get No) Satisfaction - 1965
Got Live If You Want It (Ep) - 1965
Got Live If You Want It (Ep) - 1965
Get Off Of My Cloud - 1965
19th Nervous Breakdown - 1966
Paint It, Black - 1966
Have You Seen Your Mother, Baby, Standing In The Shadows - 1966
Let's Spend The Night Together / Ruby Tuesday - 1967
We Love You - 1967
Jumpin' Jack Flash - 1968
Honky Tonk Women - 1969
Brown Sugar - 1971
Tumbling Dice - 1972
Angie - 1973
It's Only Rock 'n' Roll (But I Like It) - 1974
Fool To Cry - 1976
Miss You - 1978
Respectable - 1978
Live:
1970 - Get Yer Ya-Yas Out! The Rolling Stones In Concert
1977 - Love You Live
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