mercoledì 4 gennaio 2012

WHO, THE

       L’avvento degli Who sulla musica rock britannica è pari a quello di una mandria di bisonti su di un terreno coltivato. Tutto quello che è stato concepito fino al loro arrivo viene, zoccolo dopo zoccolo, nota dopo nota, distrutto, modificato, destrutturato. Il processo è veloce e avviene con l’apparire sulle scene dei loro primi singoli e di un primo album che trascina per mano l’r & b e lo porta in territori allora sconosciuti. Se questo genere era già in mutamento grazie anche ad altre band, gli Who sono stati i primi a spostarne le barriere in modo consapevole. Una consapevolezza testimoniata da come queste barriere, questi limiti, siano stati costantemente superati di Lp in Lp per tutto il loro primo decennio di attività: dalla totale distruzione e ricomposizione del rythm & blues all’elevazione del pop d’autore fino ad opera a sé stante. Questi meriti si devono ascrivere a due fattori: da un lato alla smisurata intelligenza musicale del loro chitarrista, leader e compositore Pete Townshend; da un altro al fatto che gli Who sono stati il primo gruppo delle nuove leve britanniche a possedere tra le proprie fila tre vertici strumentali di livello eccelso: Townshend, John Entwistle (bassista con capacità da chitarrista solista) e Keith Moon (batterista dalle doti rivoluzionarie) sono stati l’embrione del power trio della musica rock. Se a loro aggiungiamo la potenza canora di Roger Daltrey, in costante maturazione anno dopo anno, l’apparizione di un gruppo dalle doti tangenti la perfezione è vicina.

1965. MY GENERATION


      I quattro esordiscono nella scena britannica con il nome di The High Numbers e il singolo “I’m The Face”, che li ascrive subito al movimento MOD del periodo. Il 45 giri è un insuccesso ma il gruppo viene comunque contattato dall’allora produttore dei Kinks Shel Thalmy, che vede in loro qualcosa di vicino al gruppo capofila della sua scuderia. L’occhio di Thalmy è lungimirante e già dal primo singolo, ora ad ufficiale nome The Who, i risultati ottenuti sono ottimi. “I Can’t Explain” è un chiaro tentativo imitatorio di Townshend nei confronti dei primi 45 giri del gruppo di Ray Davies, ma il risultato è così fresco e potente che il paragone riesce a porsi in maniera più che positiva. Il brano pur possedendo strutture simili a quelle di “You Really Got Me” e “All Day And All Of The Night” riesce a reggersi sulle proprie gambe in maniera più che stabile, aggiornando e irruvidendo ulteriormente il suono già potentissimo dei due brani matrice. Un’evoluzione giunge con il secondo singolo dove Townshend e compagni cominciano sul serio il progetto destrutturante della musica r & b britannica. “Anyway, Anyhow, Anywhere”, pur essendo ancora una classica canzone rock, inizia a presentare primi segni di una ricercata cacofonia strumentale come dimostrato dall’assolo a metà brano, che più di rumore non è. Capolavoro definitivo di quest’era è il singolo dell’estate “My Generation”: il costante battere martellante della chitarra di Townshend, gli assoli di basso non più univoco strumento ritmico di Estwistle, i voli pirotecnici di Moon, la marcata balbuzie di Daltrey creano un rock ‘n’ roll che si tramuta in un antitesi dello stesso genere concludendosi in una sarabanda finale di auto distruttività inaudita. Il brano rimarrà negli anni a venire tra i marchi stilistici del suo genere creandone allo stesso tempo uno completamente nuovo. L’Lp omonimo di fine anno è all’altezza delle aspettative consegnate dai primi tre 45 giri. Ogni brano è in contrasto con il genere da cui deriva e porta in sé rabbia giovanile, tensione sessuale e desideri di pura autoannientazione. Lo stile sincopato di “Out In The Street” (con un assolo in contrappunto di pickup chitarristici), le violenze di “The Good’s Gone”, “Much Too Much”, “A Legal Matter” e il pop struprato di “La-La-La Lies” “It’s Not True” e “The Kids Are Alright” (altro inno generazionale) creano un manifesto nel quale possono riflettersi i giovani dell’epoca. Vero capolavoro nel capolavoro è la conclusiva “The Ox” dove la potenza del gruppo (con l’aggiunta alle tastiere di Nicky Hopkins come session man) crea uno strumentale dominato da funamboliche spirali di batteria e cascate di feedback chitarristici che è non più hard blues ma hard rock in nuce anticipatore della Jimi Hendrix Experience. Di un gradino inferiori le tre cover presentate: “I Don’t Mind” e “Please Please Please” da James Brown e “I’m A Man” che non raggiunge i livelli della contemporanea versione degli Yardbirds. Il singolo d’inizio ’66 è più che un semplice compendio all’album: “Substitute” è pari livello se non superiore ai brani del disco, la perizia compositiva del chitarrista è perfettamente amalgamata con la cattiveria interpretativa del gruppo.

1966. A QUICK ONE


       Altro importante brano pubblicato su 45 giri è “I’m A Boy”, versione ridotta di un progetto abbandonato di rock opera, che per mood è ancora vicino allo stile coniato da My Generation. Uno sconfinamento in territori più curiosi è “Happy Jack”, un’ironica marcia che anticipa l’album di fine ’66. Pur non ai livelli del precedente, A Quick One rappresenta una tappa fondamentale per l’evoluzione del gruppo. Da un lato è un continuum del loro stile musicale (“Run Run Run” e soprattutto “So Sad About Us”: vero punto d’arrivo del loro power pop), dall’altro presenta ricerche ancora acerbe in altri campi musicali. Il disco non mostra la compattezza del primo album anche per il desiderio degli altri tre membri del gruppo (sostenuti dalla casa discografica) di partecipare anche in sede compositiva. Tali brani non sono all’altezza delle produzioni di Townshend (“Boris The Spider” di Estwistle e “See My Way” di Daltrey) eccezion fatta per “I Need You” di Moon, vera sorpresa del disco. Di un’intera gradinata superiore al resto del materiale proposto è la titletrack “A Quick One, While He’s Away”, prima suite della musica rock, un overture di 9 minuti che lascia ben intendere le smodate capacità di Pete Townshend come compositore. In questo brano possono già intuirsi 10 anni futuri di musica rock articolata in movimenti: dai Mothers di Absolutely Free del ‘67 (il concepimento di suite rock) ai Beatles di Abbey Road del ’69 (l’annegamento di ogni brano nel suo diretto successivo nella seconda facciata), dalle eccentriche composizioni degli Yes (la formalizzazione dello stile) alle prime operette dei Queen degli esordi (i contrappunti di orchestrali voci del coro a commento). Su canoni già battuti, ma non meno interessante, è il singolo di metà anno “Picture Of Lily” nella quale la tensione sessuale degli esordi è portata agli estremi. Di minore rilevanza sono le due cover di “The Last Time” e “Under My Thumb” dei Rolling Stones, pubblicate su singolo come gesto di solidarietà verso Jagger, Richard e Jones incarcerati per possesso di stupefacenti.

1967. THE WHO SELL OUT


    The Who svenduti? Il gruppo più puro della scena? Da un punto di vista di intransigenza rhythm & blues può anche risultare vero, non fosse che The Who Sell Out è una delle opere migliori della carriera della band, forse la più solida e compatta per scorrevolezza e scelta dei brani che la compongono. Il disco è un concept album dove ogni brano è amalgamato con il successivo attraverso intermezzi di una fittizia stazione radiofonica comprendenti jingle, pubblicità e reclame di ogni sorta. All’apice della stagione psichedelica (seconda metà del ’67) gli Who non vengono corrotti dal suono modaiolo del momento, come capitato con alterne fortune a molti colleghi, ma non ne rimangono neppure completamente in disparte aggiungendo leggere spruzzate di colori accesi ai loro brani costruendo un risultato di una raffinata ecletticità (esempio ne è l’apripista “Armenia City In The Sky” con i suoi eco e riverberi). I linguaggi toccati sono molteplici e tra i più disparati: da un estremo hard rock (“I Can See For Miles”, una delle canzoni più potenti del periodo), a ritmi esotici (“Mary-Anne With The Shaky Hand”), intermezzi di uno straniante romanticismo (“Our Love Was”), fino ad un altro tentativo di suite con la coppia conclusiva “Sunrise” e “Rael” che anticipano musicalmente quello che gli Who produrranno con il disco successivo. Ad occupare il ’68 è presentato il singolo “Magic Bus” un canonico blues acustico con botta e risposta sotto acido.   

1969. TOMMY


    La maturazione di Townshend come compositore raggiunge il suo zenit ad inizio ’69 con la realizzazione di quello che rimarrà il lavoro più importante degli Who e uno dei punti più alti raggiunti dal rock inglese dei sixties. L’evoluzione sonora del gruppo è sbalorditiva, la potenza degli esordi del periodo MOD è ormai quasi completamente sostituita da una magniloquenza sonora di elevatissimo livello. Il disco è una rock opera, non la prima, ma sicuramente la più articolata, la meglio scritta, con una fluidità sonora, una perfezione narrativa da nessun altro gruppo anche solo lontanamente raggiunta all’epoca. Tommy è il disco che alza l’asticella qualitativa della musica rock di molti centimetri con un unico salto. Con Tommy tutti gli esperimenti su una visione narrativa della musica pop trovano compimento. Tommy è il punto d’unione e d’arrivo partito da Freak Out! (The Mothers Of Invention, ‘66) passato dalla stessa “A Quick One, While He’s Away”, formalizzato da Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band (The Beatles, ‘67) e The Kinks Are The Village Green Preservation Society (The Kinks, ‘68), e reso sperimentalmente rock opera da Hot Nudgens’ Gone Flake (Small Faces, ’68) e S.F. Sorrow (The Pretty Things, ’68). Parlare dei singoli brani è lavoro impossibile, la contestualizzazione degli stessi è parte integrante del quadro completo. A livello esecutivo si nota una maggiore cura per l’aspetto acustico della musica del quartetto e sono solo sporadiche le incursioni nell’hard rock (ottimo esempio è il singolo “Pinball Wizard” che è, praticamente, un unplugged hard rock) e una sinergia tra i musicisti che tra quest’album e il successivo porta gli Who al loro apice interpretativo (anche in sede live come superbamente dimostrato dallo stupendo Live At Leeds del ’70). Ad accompagnare commercialmente la pubblicazione del disco viene dato alle stampe il singolo “The Seeker”, non ai livelli dell’album. 

1971. WHO'S NEXT


    Inizialmente progettato come un’altra rock opera dal titolo di Lifehouse, Who’s Next mantiene la caratura del gruppo su livelli ottimali. A far passare alla storia l’album è la presenza in esso di tre fra i brani più celebri della band. “Baba O’Riley” apre le danze con una tastiera sintetizzata che fa da tappeto sonoro ad un potente hard rock con venature di protesta sociale. “Behind Blue Eyes” è la celebre ballata del disco, reminiscente del passato di Townshend. “Won’t Get Fool Again” chiude il disco sulle stesse vibrazioni dell’iniziale creando il miglior brano d’assalto del gruppo e una delle sue migliori interpretazioni sonore. La voce di Roger Daltrey con quest’album giunge alla totale maturazione con una perfetta mediazione tra l’irruenza comunicativa e la rauca giugulare. Di qualità inferiori sono altri episodi del disco spesso parzialmente snaturati da un’eccessiva pulizia sonora che poco si addice allo stile del gruppo (“Getting In Tune”) e ad uno smodato uso di sintetizzatori e tastiere (“The Song Is Over”, “Going Mobile”) che comunque non rovina il risultato complessivo di un lavoro che verrà ricordato come un classico del rock anni ‘70. I singoli pubblicati a parte seguono la via dei brani meno riusciti del disco (“Join Together”, “Let’s See Action” e “Relay”).  


1973. QUADROPHENIA


    Simbolico ritorno al passato e celebrazione di un intero periodo musicale inglese, Quadrophenia è una rock opera che è summa stilistico dei due dischi immediatamente precedenti. Il contesto narrativo dell’album è ideologicamente posto ad inizio anni ’60 in un iper-universo composto da risse di strada tra rockers e MOD e turbe adolescenziali rappresentate dalle quattro personalità antitetiche del nevrotico protagonista in crisi d’identità. Se per gli aspetti narrativi il disco si avvicina a Tommy, il risultato musicale e timbrico è accostabile a Who’s Next: l’opera è imbevuta di tastiere, sintetizzatori e alcune lungaggini di troppo soprattutto nei brani strumentali che, in certi passaggi, lo appesantiscono notevolmente. Il risultato complessivo, pur non possedendo gli apici del lavoro precedente, si mantiene comunque ad un livello mediamente superiore nella sua totalità. Ad ergersi dal fluido narrativo dell’opera sono i brani “I’ve Had Enough”, “5.15”, “Doctor Jimmy” e la conclusiva “Love, Reign O’ev Me” (climax e leitmotiv del disco) che possiedono un notevole pathos espressivo. Il disco, oltre essere un laconico saluto ad un periodo storico-musicale concluso e superato, sancisce la chiusura del periodo migliore degli Who che non riusciranno più a raggiungere questi livelli di eccellenza già dai successivi lavori.

1975. THE WHO BY NUMBERS


    Con un gioco di parole che richiama i loro esordi (The High Numbers) gli Who, due anni dopo Quadrophenia, realizzano un album più scarno e diretto che, evitando gli aspetti prolissi della loro musica, si concentra su un hard rock vicino a quello di Who’s Next. Se gli intenti sono ancora encomiabili, il risultato non lo è altrettanto essendo i brani presenti nel lotto non all’altezza dei loro predecessori, nonostante la decisione, almeno per questo disco, di evitare lo smodato uso di strumenti elettronici che ha avvolto le produzioni degli ultimi lavori. Il gruppo in questo momento è forse più interessato alla riduzione cinematografica del loro capolavoro Tommy che a comporre nuova musica.  
   
1978. WHO ARE YOU


    Il disco che contiene l’ultimo grande successo del gruppo (la titletrack) è anche il meno riuscito. L’album porta all’estremo certi difetti solo in minima parte contenuti nei lavori precedenti. A livello di scrittura l’album rasenta i risultati di The Who By Numbers, in oltre su un piano esecutivo eccede in sbordate di sintetizzatori che avvolgono e castrano malamente gran parte dei brani in lista. A loro favore non può di certo dar credito il fatto che la maggior parte dei dinosauri hard rock nella seconda metà del decennio si è votata ad analoghi suoni sintetico-analogici, il problema è la scarsa perizia usata nel cimentarsi in queste strumentazioni e il contesto in cui queste vengono impiegate. Il tutto semplicemente porta ad un risultato di costante deja vù musicale rivestito con un nuovo abito elettronico. “Music Must Change” ci dicono i quattro: non possiamo fare altro che dargli ragione. Who Are You rimarrà nella carriera del gruppo come l’ultimo album della band classica: Keith Moon morirà poche settimane dopo la pubblicazione del disco per un’overdose di medicinali assunti per combattere la sua dipendenza all’alcool. I tre restanti decideranno di continuare la carriera facendosi accompagnare alle pelli da Kenney Jones, già negli anni ’60 tra le fila dei loro compagni/rivali MOD Small Faces, a simboleggiare una certa continuità stilistica ed una ideologica chiusura del cerchio musicale di partenza. I risultati, nei due dischi che produrrà la nuova rimaneggiata formazione (Face Dances, 1981; It’s Hard, 1982), non saranno in ogni caso quelli sperati.

Discografia Uk

Lp:
1965 – My Generation [****]
1966 – A Quick One [***1/2]
1967 – The Who Sell Out [****]
1969 – Tommy [*****]
1971 – Who’s Next [***1/2]
1973 – Quadrophenia [***1/2]
1975 – The Who By Numbers [**]
1978 – Who Are You [*]

Singoli / Ep:
I Can’t Explain – 1965
Anyway, Anyhow, Anywhere – 1965
My Generation – 1965
Substitute – 1966
A Legal Matter – 1966
The Kids Are Alright – 1966
I’m A Boy – 1966
La-La-La Lies – 1966
Ready Steady Who [Ep] – 1966
Happy Jack – 1966
Picture Of Lily – 1967
The Last Time – 1967
I Can See For Miles – 1967
Dogs – 1968
Magic Bus – 1968
Pinball Wizard – 1969
The Seeker – 1970
Summertime Blues – 1970
See Me, Feel Me – 1970
Tommy [Ep] – 1970
Won’t Get Fool Again – 1971
Let’s See Action – 1971
Join Together – 1972
Relay – 1972
5:15 – 1973
Squeeze Box – 1975
Substitute – 1976
Who Are You – 1978
Trick Of The Light – 1978
Long Live Rock – 1979
5:15 – 1979

Live:
1970 - Live At Leeds

O.S.T.:
Tommy - 1975
The Kids Are Alright - 1979
Quadrophenia - 1979