lunedì 5 marzo 2012

THEM

      Band fondamentale per la costituzione del garage rock britannico i Nordirlandesi Them propongono un rythmn & blues che per ispirazione è filo conduttore e sintesi di quello epico degli Animals e quello rude e scarno di Pretty Things e Rolling Stones. In aggiunta a queste fonti ispirative va menzionata una resa in sede live che li avvicina al miglior gruppo che sta calcando i palcoscenici in quel periodo: gli Yardbirds con i loro rave up concertistici. Lungi dall’essere una semplice somma degli addendi sopra citati il risultato sonico dei Them riesce ad essere personale soprattutto in merito ad un cantante tra i migliori e personali della sua generazione. Van Morrison riesce a far arrugginire la potenza di Eric Burdon nella sgraziatezza di Phil May portando il cantato rock a livelli comunicativi ed espressivi elevatissimi. La sua voce sarà punto di riferimento per un’intera generazione di cantanti a partire dal suo primo fedele fan (ed emulatore): l’omonimo Jim. Morrison rimarrà tra le file del gruppo per i primi e più importanti tre anni (’64-’66), lasciandolo per dedicarsi ad una straordinaria carriera solista. I Them proseguiranno nonostante l’assenza del loro fondatore, più minati da litigi interni e legali che concentrati sulla produzione di nuova musica: in quel periodo di (scarsa) ispirazione psichedelica.

1965. THE “ANGRY” YOUNG THEM!



      Gli esordi del gruppo avvengono con una serie di storici concerti al Maritime Hotel di Belfast con una formazione che oltre a Morrison comprende Alan Henderson al basso, Billy Harrison alla chitarra, Ronnie Millings alla batteria ed Eric Wixon alle tastiere. Tali esibizioni rimarranno tra le più mirabili dell’epoca, degli esperimenti sonori di dilatazione musicale e improvvisazione che arriveranno a farli conoscere fino all’isola madre e guadagnargli un contratto con la Decca. Il gruppo fresco di arrivo nella capitale inizia immediatamente l’attività di registrazione e pubblica a breve il suo primo singolo: la tiratissima “Don’t Start Crying Now” (1964), un r & b nella vena dei più violenti garage. La svolta della loro carriera sopraggiunge con il fondamentale secondo singolo, di notevole rilevanza per il contenuto di ambo le facciate. Come lato A presenta “Baby Please Don’t Go” che tramuta l’originale di Big Joe Williams in un garage rock ipertrofico con chitarre alla Shadows. Il lato B è occupato da quella che rimarrà come uno dei migliori brani garage di sempre nonché il miglior sconfinamento di Morrison nel genere, si tratta di “Gloria”: pezzo epocale di rabbia giovanile e furore sonoro. Terzo singolo e altro successo è “Here Comes The Night” composta per loro dal produttore Bert Berns che presenta al grande pubblico per la prima volta le doti più intrinsecamente soul del cantante. A seguito di questi riscontri commerciali e delle loro fulminanti perfomance dal vivo, che spesso trasformavano i loro brani in lunghe divagazioni da 20 minuti e più di improvvisazioni, il gruppo ad inizio estate consegna alle stampe il primo Lp dal titolo The “Angry” Young Them!. Il disco, come vuole la prassi del periodo, è un misto di reinterpretazioni di classici blues e brani originali. L’opera si apre con uno dei capolavori del gruppo, la funambolica “Mystic Eyes” che, notevolmente accorciata rispetto alle versioni live, presenta un’introduzione di cacofonia rythmn & blues che proseguendo in una seconda parte non meno composta vede una sbraitante improvvisazione vocale di Morrison ai limiti dello scat. Si prosegue con un Morrison più confidenziale ed interlocutorio con la successiva “If You And I Could Be As Two” (di Morrison), “Don’t Look Back” e “I’m Gonna Dress In Black” di ricco contenuto soul. A spingere il gruppo e le 14 tracce nella scala di gradimento valutativo è proprio l’interpretazione del cantante, vero istrione sonoro trasportatore di rabbia e cattiveria, che ricopre tutte le composizioni (prendere a testimonianza “Little Girl”, “Gone On Home Baby” e “I Like It Like That”) di quella che in sua assenza sarebbe stata una comunissima band tra le tante della british invasion. Di un fascino più oscuro e trascendente è la cupa “You Just Can’t Win” (tra i primi veri capolavori compositivi ed espressivi del cantante) che fa da tessuto connettivo con i primissimi Doors. Collegati alla parte più nera e soul del gruppo sono i due singoli pubblicati a parte posti a conclusione dell’annata: “One More Time” e “(It Won’t Hurt) Half As Much”.   


1966. THEM AGAIN


I 45 giri successivi sono un ritorno in più sterrati luoghi musicali. “Call My Name”, avvicinandosi alla “Don’t Let Me Be Misunderstood” degli Animals, da sfoggio di una nuova rabbia approfondita con più cattiveria dal riff di “I Can Only Give You Everything”, brano garage pubblicato in primavera ‘66. Anticipati da un discreto successo il gruppo comincia un fondamentale tour oltreoceano che culmina con le celebri esibizioni a Los Angeles insieme agli allora esordienti Doors a rappresentazione di un simbolico passaggio di testimone. Questa tourné risulta in oltre importante per aver portato ad un parziale scioglimento e scissione del gruppo in due band distinte: da un lato la formazione guidata da Morrison e Henderson (titolari del nome) e dall’altro quella formata dal chitarrista Billy Harrison e dal batterista Pat McAuley che per questioni legali tramuta il proprio nome in Belfast Gypsies pubblicando una manciata di singoli ed un album esclusivamente per il mercato dell’Europa continentale (Them Belfast Gypsies, 1967). I due gruppi proseguono l’annata su due binari paralleli di garage rock e rythmn & blues. I Them di Morrison e Henderson in estate pubblicano il secondo album che, smerigliando gli appuntiti spigoli dell’esordio, propone un più ampio e soffice range di musica nera. Oltre a contenere i due singoli che gli hanno spianato la strada ad inizio anno il disco è bilanciato tra reinterpretazioni di classici (“Out Of Sight” fedele a James Brown, “I Put A Spell On You” che spalleggia non sfigurando con la versione coeva proposta dagli Animals puntando maggiormente sull’atmosfera che sulla potenza, e una sorprendente versione di “It’s All Over Now, Baby Blue” che rimaneggiando/rinnegando Dylan si concentra su una tensione costantemente trattenuta e lasciata implodere nel vuoto) e brani che vedono affermarsi le capacità cantautoriali di Morrison  (se “Could You Would You” e “Bring ‘Em On In” non aggiungono molto al suo stile compositivo, “My Lonely Sad Eyes” e “Hey Girl”, illuminando il cupo viale aperto da “You Just Can’t Win”, lasciano intuire primi embrionali barlumi di Astral Weeks). I singoli immediatamente successivi all’album sono di quest’ultima vena espressiva. “Richard Cory” media il lirismo del cantante con un arrangiamento tra l’elettrico e l’acustico, “Friday’s Child” è un diretto proseguo di “Hey Girl” mentre “The Story Of Them” è un lungo commiato per il gruppo e l’ultima interpretazione di Morrison per la band che proseguirà nelle mani del bassista Henderson (e di una formazione instabile) con una serie di Lp americani che seguono con banale maniera il movimento psichedelico della West Coast (Now And Them, 1968; Time Out! Time In For Them, 1968; Them, 1970; Them In Reality, 1971). Tali produzioni (insieme a quelle dei Belfast Gypsies) se oltretutto paragonate al discorso musicale che Van Morrison sta intraprendendo nel medesimo periodo non fanno altro che rendere più chiare le distanze artistiche tra il geniale cantante ed il resto della band.   

Discografia Uk


Lp:
1965 – The “Angry” Young Them! [***]
1966 – Them Again [**1/2]



Singoli / Ep:
Don't Start Crying Now - 1964
Baby, Please Don't Go - 1965
 Them [Ep] - 1965
 Here Comes The Night - 1965
 One More Time - 1965
 (It Won't Hurt) Half As Much - 1965
 Mystic Eyes - 1966
 Call My Name - 1966
 I Can Only Give You Everything - 1966
 Richard Cory - 1966
 Friday's Child - 1967
 The Story Of Them - 1967




mercoledì 4 gennaio 2012

WHO, THE

       L’avvento degli Who sulla musica rock britannica è pari a quello di una mandria di bisonti su di un terreno coltivato. Tutto quello che è stato concepito fino al loro arrivo viene, zoccolo dopo zoccolo, nota dopo nota, distrutto, modificato, destrutturato. Il processo è veloce e avviene con l’apparire sulle scene dei loro primi singoli e di un primo album che trascina per mano l’r & b e lo porta in territori allora sconosciuti. Se questo genere era già in mutamento grazie anche ad altre band, gli Who sono stati i primi a spostarne le barriere in modo consapevole. Una consapevolezza testimoniata da come queste barriere, questi limiti, siano stati costantemente superati di Lp in Lp per tutto il loro primo decennio di attività: dalla totale distruzione e ricomposizione del rythm & blues all’elevazione del pop d’autore fino ad opera a sé stante. Questi meriti si devono ascrivere a due fattori: da un lato alla smisurata intelligenza musicale del loro chitarrista, leader e compositore Pete Townshend; da un altro al fatto che gli Who sono stati il primo gruppo delle nuove leve britanniche a possedere tra le proprie fila tre vertici strumentali di livello eccelso: Townshend, John Entwistle (bassista con capacità da chitarrista solista) e Keith Moon (batterista dalle doti rivoluzionarie) sono stati l’embrione del power trio della musica rock. Se a loro aggiungiamo la potenza canora di Roger Daltrey, in costante maturazione anno dopo anno, l’apparizione di un gruppo dalle doti tangenti la perfezione è vicina.

1965. MY GENERATION


      I quattro esordiscono nella scena britannica con il nome di The High Numbers e il singolo “I’m The Face”, che li ascrive subito al movimento MOD del periodo. Il 45 giri è un insuccesso ma il gruppo viene comunque contattato dall’allora produttore dei Kinks Shel Thalmy, che vede in loro qualcosa di vicino al gruppo capofila della sua scuderia. L’occhio di Thalmy è lungimirante e già dal primo singolo, ora ad ufficiale nome The Who, i risultati ottenuti sono ottimi. “I Can’t Explain” è un chiaro tentativo imitatorio di Townshend nei confronti dei primi 45 giri del gruppo di Ray Davies, ma il risultato è così fresco e potente che il paragone riesce a porsi in maniera più che positiva. Il brano pur possedendo strutture simili a quelle di “You Really Got Me” e “All Day And All Of The Night” riesce a reggersi sulle proprie gambe in maniera più che stabile, aggiornando e irruvidendo ulteriormente il suono già potentissimo dei due brani matrice. Un’evoluzione giunge con il secondo singolo dove Townshend e compagni cominciano sul serio il progetto destrutturante della musica r & b britannica. “Anyway, Anyhow, Anywhere”, pur essendo ancora una classica canzone rock, inizia a presentare primi segni di una ricercata cacofonia strumentale come dimostrato dall’assolo a metà brano, che più di rumore non è. Capolavoro definitivo di quest’era è il singolo dell’estate “My Generation”: il costante battere martellante della chitarra di Townshend, gli assoli di basso non più univoco strumento ritmico di Estwistle, i voli pirotecnici di Moon, la marcata balbuzie di Daltrey creano un rock ‘n’ roll che si tramuta in un antitesi dello stesso genere concludendosi in una sarabanda finale di auto distruttività inaudita. Il brano rimarrà negli anni a venire tra i marchi stilistici del suo genere creandone allo stesso tempo uno completamente nuovo. L’Lp omonimo di fine anno è all’altezza delle aspettative consegnate dai primi tre 45 giri. Ogni brano è in contrasto con il genere da cui deriva e porta in sé rabbia giovanile, tensione sessuale e desideri di pura autoannientazione. Lo stile sincopato di “Out In The Street” (con un assolo in contrappunto di pickup chitarristici), le violenze di “The Good’s Gone”, “Much Too Much”, “A Legal Matter” e il pop struprato di “La-La-La Lies” “It’s Not True” e “The Kids Are Alright” (altro inno generazionale) creano un manifesto nel quale possono riflettersi i giovani dell’epoca. Vero capolavoro nel capolavoro è la conclusiva “The Ox” dove la potenza del gruppo (con l’aggiunta alle tastiere di Nicky Hopkins come session man) crea uno strumentale dominato da funamboliche spirali di batteria e cascate di feedback chitarristici che è non più hard blues ma hard rock in nuce anticipatore della Jimi Hendrix Experience. Di un gradino inferiori le tre cover presentate: “I Don’t Mind” e “Please Please Please” da James Brown e “I’m A Man” che non raggiunge i livelli della contemporanea versione degli Yardbirds. Il singolo d’inizio ’66 è più che un semplice compendio all’album: “Substitute” è pari livello se non superiore ai brani del disco, la perizia compositiva del chitarrista è perfettamente amalgamata con la cattiveria interpretativa del gruppo.

1966. A QUICK ONE


       Altro importante brano pubblicato su 45 giri è “I’m A Boy”, versione ridotta di un progetto abbandonato di rock opera, che per mood è ancora vicino allo stile coniato da My Generation. Uno sconfinamento in territori più curiosi è “Happy Jack”, un’ironica marcia che anticipa l’album di fine ’66. Pur non ai livelli del precedente, A Quick One rappresenta una tappa fondamentale per l’evoluzione del gruppo. Da un lato è un continuum del loro stile musicale (“Run Run Run” e soprattutto “So Sad About Us”: vero punto d’arrivo del loro power pop), dall’altro presenta ricerche ancora acerbe in altri campi musicali. Il disco non mostra la compattezza del primo album anche per il desiderio degli altri tre membri del gruppo (sostenuti dalla casa discografica) di partecipare anche in sede compositiva. Tali brani non sono all’altezza delle produzioni di Townshend (“Boris The Spider” di Estwistle e “See My Way” di Daltrey) eccezion fatta per “I Need You” di Moon, vera sorpresa del disco. Di un’intera gradinata superiore al resto del materiale proposto è la titletrack “A Quick One, While He’s Away”, prima suite della musica rock, un overture di 9 minuti che lascia ben intendere le smodate capacità di Pete Townshend come compositore. In questo brano possono già intuirsi 10 anni futuri di musica rock articolata in movimenti: dai Mothers di Absolutely Free del ‘67 (il concepimento di suite rock) ai Beatles di Abbey Road del ’69 (l’annegamento di ogni brano nel suo diretto successivo nella seconda facciata), dalle eccentriche composizioni degli Yes (la formalizzazione dello stile) alle prime operette dei Queen degli esordi (i contrappunti di orchestrali voci del coro a commento). Su canoni già battuti, ma non meno interessante, è il singolo di metà anno “Picture Of Lily” nella quale la tensione sessuale degli esordi è portata agli estremi. Di minore rilevanza sono le due cover di “The Last Time” e “Under My Thumb” dei Rolling Stones, pubblicate su singolo come gesto di solidarietà verso Jagger, Richard e Jones incarcerati per possesso di stupefacenti.

1967. THE WHO SELL OUT


    The Who svenduti? Il gruppo più puro della scena? Da un punto di vista di intransigenza rhythm & blues può anche risultare vero, non fosse che The Who Sell Out è una delle opere migliori della carriera della band, forse la più solida e compatta per scorrevolezza e scelta dei brani che la compongono. Il disco è un concept album dove ogni brano è amalgamato con il successivo attraverso intermezzi di una fittizia stazione radiofonica comprendenti jingle, pubblicità e reclame di ogni sorta. All’apice della stagione psichedelica (seconda metà del ’67) gli Who non vengono corrotti dal suono modaiolo del momento, come capitato con alterne fortune a molti colleghi, ma non ne rimangono neppure completamente in disparte aggiungendo leggere spruzzate di colori accesi ai loro brani costruendo un risultato di una raffinata ecletticità (esempio ne è l’apripista “Armenia City In The Sky” con i suoi eco e riverberi). I linguaggi toccati sono molteplici e tra i più disparati: da un estremo hard rock (“I Can See For Miles”, una delle canzoni più potenti del periodo), a ritmi esotici (“Mary-Anne With The Shaky Hand”), intermezzi di uno straniante romanticismo (“Our Love Was”), fino ad un altro tentativo di suite con la coppia conclusiva “Sunrise” e “Rael” che anticipano musicalmente quello che gli Who produrranno con il disco successivo. Ad occupare il ’68 è presentato il singolo “Magic Bus” un canonico blues acustico con botta e risposta sotto acido.   

1969. TOMMY


    La maturazione di Townshend come compositore raggiunge il suo zenit ad inizio ’69 con la realizzazione di quello che rimarrà il lavoro più importante degli Who e uno dei punti più alti raggiunti dal rock inglese dei sixties. L’evoluzione sonora del gruppo è sbalorditiva, la potenza degli esordi del periodo MOD è ormai quasi completamente sostituita da una magniloquenza sonora di elevatissimo livello. Il disco è una rock opera, non la prima, ma sicuramente la più articolata, la meglio scritta, con una fluidità sonora, una perfezione narrativa da nessun altro gruppo anche solo lontanamente raggiunta all’epoca. Tommy è il disco che alza l’asticella qualitativa della musica rock di molti centimetri con un unico salto. Con Tommy tutti gli esperimenti su una visione narrativa della musica pop trovano compimento. Tommy è il punto d’unione e d’arrivo partito da Freak Out! (The Mothers Of Invention, ‘66) passato dalla stessa “A Quick One, While He’s Away”, formalizzato da Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band (The Beatles, ‘67) e The Kinks Are The Village Green Preservation Society (The Kinks, ‘68), e reso sperimentalmente rock opera da Hot Nudgens’ Gone Flake (Small Faces, ’68) e S.F. Sorrow (The Pretty Things, ’68). Parlare dei singoli brani è lavoro impossibile, la contestualizzazione degli stessi è parte integrante del quadro completo. A livello esecutivo si nota una maggiore cura per l’aspetto acustico della musica del quartetto e sono solo sporadiche le incursioni nell’hard rock (ottimo esempio è il singolo “Pinball Wizard” che è, praticamente, un unplugged hard rock) e una sinergia tra i musicisti che tra quest’album e il successivo porta gli Who al loro apice interpretativo (anche in sede live come superbamente dimostrato dallo stupendo Live At Leeds del ’70). Ad accompagnare commercialmente la pubblicazione del disco viene dato alle stampe il singolo “The Seeker”, non ai livelli dell’album. 

1971. WHO'S NEXT


    Inizialmente progettato come un’altra rock opera dal titolo di Lifehouse, Who’s Next mantiene la caratura del gruppo su livelli ottimali. A far passare alla storia l’album è la presenza in esso di tre fra i brani più celebri della band. “Baba O’Riley” apre le danze con una tastiera sintetizzata che fa da tappeto sonoro ad un potente hard rock con venature di protesta sociale. “Behind Blue Eyes” è la celebre ballata del disco, reminiscente del passato di Townshend. “Won’t Get Fool Again” chiude il disco sulle stesse vibrazioni dell’iniziale creando il miglior brano d’assalto del gruppo e una delle sue migliori interpretazioni sonore. La voce di Roger Daltrey con quest’album giunge alla totale maturazione con una perfetta mediazione tra l’irruenza comunicativa e la rauca giugulare. Di qualità inferiori sono altri episodi del disco spesso parzialmente snaturati da un’eccessiva pulizia sonora che poco si addice allo stile del gruppo (“Getting In Tune”) e ad uno smodato uso di sintetizzatori e tastiere (“The Song Is Over”, “Going Mobile”) che comunque non rovina il risultato complessivo di un lavoro che verrà ricordato come un classico del rock anni ‘70. I singoli pubblicati a parte seguono la via dei brani meno riusciti del disco (“Join Together”, “Let’s See Action” e “Relay”).  


1973. QUADROPHENIA


    Simbolico ritorno al passato e celebrazione di un intero periodo musicale inglese, Quadrophenia è una rock opera che è summa stilistico dei due dischi immediatamente precedenti. Il contesto narrativo dell’album è ideologicamente posto ad inizio anni ’60 in un iper-universo composto da risse di strada tra rockers e MOD e turbe adolescenziali rappresentate dalle quattro personalità antitetiche del nevrotico protagonista in crisi d’identità. Se per gli aspetti narrativi il disco si avvicina a Tommy, il risultato musicale e timbrico è accostabile a Who’s Next: l’opera è imbevuta di tastiere, sintetizzatori e alcune lungaggini di troppo soprattutto nei brani strumentali che, in certi passaggi, lo appesantiscono notevolmente. Il risultato complessivo, pur non possedendo gli apici del lavoro precedente, si mantiene comunque ad un livello mediamente superiore nella sua totalità. Ad ergersi dal fluido narrativo dell’opera sono i brani “I’ve Had Enough”, “5.15”, “Doctor Jimmy” e la conclusiva “Love, Reign O’ev Me” (climax e leitmotiv del disco) che possiedono un notevole pathos espressivo. Il disco, oltre essere un laconico saluto ad un periodo storico-musicale concluso e superato, sancisce la chiusura del periodo migliore degli Who che non riusciranno più a raggiungere questi livelli di eccellenza già dai successivi lavori.

1975. THE WHO BY NUMBERS


    Con un gioco di parole che richiama i loro esordi (The High Numbers) gli Who, due anni dopo Quadrophenia, realizzano un album più scarno e diretto che, evitando gli aspetti prolissi della loro musica, si concentra su un hard rock vicino a quello di Who’s Next. Se gli intenti sono ancora encomiabili, il risultato non lo è altrettanto essendo i brani presenti nel lotto non all’altezza dei loro predecessori, nonostante la decisione, almeno per questo disco, di evitare lo smodato uso di strumenti elettronici che ha avvolto le produzioni degli ultimi lavori. Il gruppo in questo momento è forse più interessato alla riduzione cinematografica del loro capolavoro Tommy che a comporre nuova musica.  
   
1978. WHO ARE YOU


    Il disco che contiene l’ultimo grande successo del gruppo (la titletrack) è anche il meno riuscito. L’album porta all’estremo certi difetti solo in minima parte contenuti nei lavori precedenti. A livello di scrittura l’album rasenta i risultati di The Who By Numbers, in oltre su un piano esecutivo eccede in sbordate di sintetizzatori che avvolgono e castrano malamente gran parte dei brani in lista. A loro favore non può di certo dar credito il fatto che la maggior parte dei dinosauri hard rock nella seconda metà del decennio si è votata ad analoghi suoni sintetico-analogici, il problema è la scarsa perizia usata nel cimentarsi in queste strumentazioni e il contesto in cui queste vengono impiegate. Il tutto semplicemente porta ad un risultato di costante deja vù musicale rivestito con un nuovo abito elettronico. “Music Must Change” ci dicono i quattro: non possiamo fare altro che dargli ragione. Who Are You rimarrà nella carriera del gruppo come l’ultimo album della band classica: Keith Moon morirà poche settimane dopo la pubblicazione del disco per un’overdose di medicinali assunti per combattere la sua dipendenza all’alcool. I tre restanti decideranno di continuare la carriera facendosi accompagnare alle pelli da Kenney Jones, già negli anni ’60 tra le fila dei loro compagni/rivali MOD Small Faces, a simboleggiare una certa continuità stilistica ed una ideologica chiusura del cerchio musicale di partenza. I risultati, nei due dischi che produrrà la nuova rimaneggiata formazione (Face Dances, 1981; It’s Hard, 1982), non saranno in ogni caso quelli sperati.

Discografia Uk

Lp:
1965 – My Generation [****]
1966 – A Quick One [***1/2]
1967 – The Who Sell Out [****]
1969 – Tommy [*****]
1971 – Who’s Next [***1/2]
1973 – Quadrophenia [***1/2]
1975 – The Who By Numbers [**]
1978 – Who Are You [*]

Singoli / Ep:
I Can’t Explain – 1965
Anyway, Anyhow, Anywhere – 1965
My Generation – 1965
Substitute – 1966
A Legal Matter – 1966
The Kids Are Alright – 1966
I’m A Boy – 1966
La-La-La Lies – 1966
Ready Steady Who [Ep] – 1966
Happy Jack – 1966
Picture Of Lily – 1967
The Last Time – 1967
I Can See For Miles – 1967
Dogs – 1968
Magic Bus – 1968
Pinball Wizard – 1969
The Seeker – 1970
Summertime Blues – 1970
See Me, Feel Me – 1970
Tommy [Ep] – 1970
Won’t Get Fool Again – 1971
Let’s See Action – 1971
Join Together – 1972
Relay – 1972
5:15 – 1973
Squeeze Box – 1975
Substitute – 1976
Who Are You – 1978
Trick Of The Light – 1978
Long Live Rock – 1979
5:15 – 1979

Live:
1970 - Live At Leeds

O.S.T.:
Tommy - 1975
The Kids Are Alright - 1979
Quadrophenia - 1979

mercoledì 21 dicembre 2011

PRETTY THINGS, THE

   Se i Rolling Stones sono stati la faccia sporca dei sixties britannici, i Pretty Things, a discapito del nome (ispirato da un brano di Bo Diddley), sono stati di sicuro quella totalmente impresentabile. La loro visione musicale è molto vicina a quella delle pietre rotolanti tanto da farli emergere ad inizio carriera come una delle band di punta del movimento r & b britannico pur mai raggiungendo uno stabile e duraturo successo. Nel loro secondo periodo, di breve durata, incorporano al contrario in modo più convincente rispetto ai loro più celebri epigoni, elementi lisergici che li porteranno ad essere uno dei gruppi fondamentali dell’underground psichedelico inglese per poi concludere la carriera a metà anni ’70 con album di sempre più discutibile valore artistico.
    La storia dei Pretty Things vede la sua nascita proprio da una costola dei Rolling Stones. Dick Taylor, allora bassista del gruppo, decide di formare un’altra band e dedicarsi allo strumento da lui prediletto: la chitarra. A creare questa nuova band lo aiutano il compagno di scuola Phil May alla voce, Brian Pendleton alla chitarra ritmica, John Stax al basso, ai quali si avvicenderà una lunga schiera di batteristi.

1965. THE PRETTY THINGS


    L’impatto sonoro dei primi singoli è molto ruvido e segue la via tracciata dagli Stones nel medesimo periodo. “Rosalyn” è l’esordio dell’estate del ‘64, un rhythm & blues che percorre i canoni più classici con un’irruenza raramente ascoltata in quel periodo in Inghilterra. Della stessa matrice è “Don’t Bring Me Down”, secondo singolo che mantiene salda la loro fama di band devastatrice di classici blues.  Il disco d’esordio viaggia sugli stessi territori. Per costruzione è molto vicino al pari ruolo dei Rolling Stones, per resa sonora ne è invece una positiva esasperazione. Le chitarre di Taylor sono sempre portate agli estremi, come dimostrato dalle apripista “Roadrunner” e “Judment Day”, e la voce di May raggiunge spesso il suo punto di rottura, a volte anche oltrepassandolo come nella già citata “Roadrunner”, nella più canonica “Mama, Keep Your Big Mouth Shut” o in “Honey, I Need”, anche pubblicata a parte, dove è da sottolineare il lavoro martellante della sezione ritmica che in quel periodo vede alla batteria Viv Prince. Il disco è una diretta conseguente di quello dei cugini Stones e prosegue una destrutturazione sonora del blues che, attraverso costanti evoluzioni, porterà alla nascita dell’hard rock britannico.

1965. GET THE PICTURE?


    I singoli del 1965 proseguono nella stessa direzione evitando di formalizzare eccessivamente il suono. Se “Midnight To Six Man” è una versione più abbordabile del loro r & b, “Come See Me” (come il suo b side “£SD”) per irruenza spalleggia vittoriosamente con i primi 45 giri di gruppi mod del periodo come Who e Small Faces: il basso è una macchina scavatrice, le chitarre sono in costante battere, la voce è solo un suono rauco tra le rumorosità degli altri strumenti. Il secondo disco è premiato da una migliore registrazione rispetto al precedente ma i brani distruttivi comunque non mancano. “Buzz The Jerk” è un potente garage blues, così come le successive “Get The Picture?”, “Can’t Stand The Pain” e “We’ll Play House”. Più meditativi sono i blues “Rainin’ In My Hear”, “Cry To Me” e infine “London Town” che allarga lo spettro sonoro ad un country iper riverberato.

1967. EMOTIONS

   La decadenza del movimento r & b porta una fondamentale mutazione anche nel suono dei Pretty Things. Tra il ’66 e il ’67, la band incorpora elementi più inglesizzanti e si avvicina ad una concezione musicale non distante da quella di Ray Davies. A dimostrazione della stima per il cantante dei Kinks la band pubblica a fine ’66 la cover di “A House In The Country”. Con Emotions il distacco dai lavori precedenti è netto, anche per un sensibile cambio di formazione con i nuovi arrivati Jon Povery e Wally Waller a sostituire i dimissionari Pendleton e Stax alla chitarra e al basso rispettivamente. Il lotto di brani raccoglie un pop infarcito di arrangiamenti che sfiorano in molti casi inutili barocchismi. Il disco è più nella vena di un obbligo contrattuale che di una produzione artistica. Il gruppo, infatti, non è neppure consultato dalla casa discografica per le sovraincisioni delle sezioni di fiati e di altri strumenti ormai di canonica moda nella stagione psichedelica. Il disco, pur non essendo affatto completamente negativo, si pone in un punto d’intersecazione con risultati alterni tra i lavori dei Kinks, le recenti evoluzioni cockney degli Small Faces e quello che produrranno fra qualche mese i Love con lo stupendo Forever Changes. Se “Death Of A Socialite”, “Bright Lights Of The City” e il singolo “Children” sono delle buone filastrocche acide, “The Sun” e “House Of Ten” risultano sgraziate e sovraprodotte. Riassunto di quest’era di transizione è il brano pubblicato a parte “Progress” che concentra in se gli aspetti più interessanti dell’album: la voce volutamente fuori contesto di May affogata negli onnipresenti arrangiamenti di fiati.

1968. S.F. SORROW


    La fine dell’anno e il cambio di casa discografica ci consegna a sorpresa un nuovo gruppo. La band, completamente sdoganatasi dal rhythm & blues degli esordi e libera di esprimere tutto il suo potenziale, inanella in un anno un album e una serie di singoli fondamentali per la stagione psichedelica inglese. A fare da traghettatore è il nuovo produttore Norman Smith, già in cabina di regia per i Pink Floyd, vero sesto membro aggiunto del gruppo che riesce a intravedere nell’oscura band delle insperate nuove capacità. “Defecting Grey” è il primo capolavoro di questo periodo. Il brano è un cerchio sonoro in costante mutamento senza centro definito. Da un tranquillo incipit acustico veniamo sbalzati in dissonanti pulsioni orientali che ci trasportano nel garage di una punk band ante litteram. Il tutto potrebbe ripetersi all’infinito senza soluzione di sorta. Del medesimo valore è il secondo singolo di questo periodo: “Talkin’ About The Good Times” / “Walking Through My Dreams” presenta nel primo lato una psicotica marcia condita da sitar e mellotron e nel secondo un decadente viaggio onirico accostabile ai coevi trip dei Tomorrow. S.F. Sorrow è il compimento di questo percorso. È considerata per agiografia storica la prima rock opera della musica inglese, anticipatrice di qualche mese della ben più celebre Tommy degli Who, nonché il punto più alto raggiunto dall’underground psichedelico inglese al pari degli esordi di Pink Floyd e Tomorrow. La sinergia tra i musicisti raggiunge l’apice grazie anche alla breve ma importante collaborazione col fenomenale Twink alla batteria (non per niente appena dimissionario dai Tomorrow). I brani a risaltare sono sia quelli di più chiara ispirazione lisergica come “Bracelets Of Fingers”, “Baron Saturday” e “Trust”, sia quelli di matrice folk “Private Sorrow” e “The Journey”, che quelli prettamente hard rock come espresso dalle dissonanze armoniche di “Balloon Burning” e nella splendida “Old Man Going” dove è difficile non percepire almeno alcuni passaggi di “Pinball Wizard”. Il tutto è miscelato alla perfezione nel brano d’apertura “S.F. Sorrow Is Born” e in “She Says Good Morning”. Il mood generale è avvolto da un pessimismo cosmico nella vita del protagonista Stephan F. Sorrow che farà da matrice a molti personaggi fittizi del rock da lì a venire come il Tommy della già citata omonima opera, Rael di The Lamb Lies Down On Broadway e il Pink di The Wall. Nello stesso periodo il gruppo (con lo pseudonimo di Electric Banana) si cimenta in curiose colonne sonore di valore equivalente ai mediocri film che accompagnano (Electric Banana, 1967; More Electric Banana, 1968; Even More Elecric Banana, 1969; Hot Licks, 1970).

1970. PARACHUTE


    Chiusa formalmente la stagione psichedelica, i Pretty Things ne rimangono aggrappati con le unghie con il quinto album Parachute. Nonostante le importanti dimissioni del fondatore Dick Taylor e le scelte stilistiche ampiamente superate, la band riesce a mantenersi su livelli discreti. Il disco ricalca il lavoro precedente solo negli aspetti più accomodanti facendoli di molto avvicinare come approccio musicale ai Beatles di fine carriera (“The Good Mr. Square”, “She Was Tall, She Was High”, “She’s A Lover” e “What’s The Use”), lasciando completamente da parte gli avventurosi viaggi più eterodossi che avevano fatto di S.F. Sorrow uno dei capolavori dell’Inghilterra psichedelica. Gli aspetti più dissacranti della loro musica sono ormai quasi completamente scomparsi ed affiorano solo in alcuni passaggi minori come “Cries From The Midnight Circus”, “Miss Fay Regrets” e il finale di “Sickle Clowns”. Di maggior valore sono i brani pubblicati a parte: “October 26” ricalca fedelmente gli stilemi del disco, migliori invece sono le più spinte “Blue Serge Blues”, “Stone Cold” e “Stone Hearted Mama” che riprendono in parte lo stile della rock opera precedente. Parachute, nonostante i suoi difetti, risulta ancora una buon album posto a chiusura della parte più interessante della carriera del gruppo.

1972. FREEWAY MADNESS


    Le piccole dosi di banalità che sono iniziate ad intravedersi in Parachute prendono completamente il sopravvento con Freeway Madness, un disco così innocuo che risulta difficile pensarlo accostato allo stesso nome che ha prodotto tali lavori fino a qualche anno prima. La pazzia suggerita dal titolo non affiora in alcun brano, all’opposto tutto pare una calcolata ed inutile messa in scena di pop da classifica. Le carte sono tutte scoperte già dall’iniziale “Love Is Good”, una ballata che scema in un interminabile sing-a-long finale che scimmiotta quello di “Hey Jude” e dalla successiva “Havana Bound” dove al posto delle sensazioni melodiche troviamo un ridicolo hard rock. Un (piccolo) gradino sopra si trovano “Peter” e “Rip Off Train” che si avvicinano ai Beatles di George Harrison. Anche il country ed il blues riescono ad essere malamente snaturati come dimostrato da “Country Road”, “Allnight Sailor” e dalla conclusiva “Another Bowl”.

1974. SILK TORPEDO


    Silk Torpedo è null’altro che una riproposizione del lavoro precedente facendolo addirittura avvicinare in alcuni passaggi ad una futile visione del glam rock del periodo. Unici brani a valorizzare, di poco, l’album sono le divagazioni strumentali di “L.A.N.T.A.” e la lunga “Singapore Silk Torpedo”. Il valore del disco è racchiuso nell’immagine di copertina: finte e posticcie curve di una sinuosa pin up accomodata su quella che una volta fu la potenza sonora da bombardiere dei Pretty Things, il tutto è pura chirurgia plastica musicale.

1976. SAVAGE EYE


    Il discorso non viene corretto di una virgola con l’ultima opera della carriera. I luoghi battuti sono i medesimi del precedente album forse solo interpretati con un briciolo di convinzione e dignità in più. Quello che lascia perplessi è la peculiarità che accomuna i brani degli ultimi tre lavori: l’inutile prolissità delle canzoni non fa altro che aggiungere ridondanza al già effimero valore delle stesse. Non ci è dato sapere se è una risposta al celebre brano dei Rolling Stones appena pubblicato ma una cosa è certa: la loro musica ormai “It Isn’t Rock ‘n’ Roll”. Unica dote del gruppo, ormai completamente nelle mani di May, è l’aver compreso per tempo la propria decadenza sonora e, escludendo sporadiche reunion negli ’80 e nei decenni successivi, l’aver chiuso i battenti della carriera prima di ulteriori cadute di stile.

Discografia Uk

Lp:
1965 – The Pretty Things [**1/2]
1965 – Get The Picture? [**1/2]
1967 – Emotions [**1/2]
1968 – S.F. Sorrow [*****]
1970 – Parachute [***]
1972 – Freeway Madness [*1/2]
1974 – Silk Torpedo [*]
1976 – Savage Eye [*]



Singoli / Ep:
Rosalyn – 1964
Don’t Bring Me Down – 1964
Honey, I Need – 1965
 Cry To Me - 1965
Rainin' In My Heart [Ep] - 1965
Midnight To Six Man – 1966
Come See Me – 1966
A House In The Country – 1966
Children – 1967
Progress – 1967
Defecting Grey – 1967
Talkin’ About The Good Times/Walking Through My Dreams – 1968
Private Sorrow – 1968
The Good Mr. Square – 1970
October 26 – 1971
Stone-Hearted Mama – 1971
Over The Moon – 1972
Havana Bound – 1972
Joey – 1974
I’m Keeping – 1975
Sad Eye – 1976
Tonight – 1976

sabato 26 novembre 2011

KINKS, THE

       Ray Davies è stato il più importante cantautore inglese. Di certo il più grande musicista inglese che ha fatto della propria terra natale la sua poetica. Le sue canzoni sono vignette che rappresentano un mondo passato ormai inesistente o forse mai esistito ma vivo nella mente di Davies. Si limitasse solo a questo la sua impronta sulla musica pop rock essa sarebbe già molto profonda, se aggiungiamo che i Kinks sono stati il gruppo che ha dato vita a due generi come il punk e l’hard rock grazie ai loro primi singoli ci si rende subito conto della sua rilevanza.
Gli esordi vedono il gruppo composto dai due fratelli Davies Ray e Dave alle chitarre, Pete Quaife al basso e Mick Avory alla batteria. I Kinks inizialmente propongono una versione di merseybeat mescolato con r&b e chitarre violentate da primi rudimentali esperimenti con distorsioni.

1964. KINKS


       I primi due singoli della band (la cover di “Long Tall Sally” e “You Still Want Me”) non garantiscono alla band un immediato successo. È la terza uscita a meritargli il consenso di pubblico e soprattutto, limitativo anche a dirlo, a fargli cambiare il corso della musica rock. Il brano è composto totalmente da serie di due accordi. L’idea rivoluzionaria di Dave Davies, chitarrista del gruppo, è di tagliare letteralmente il suo amplificatore in sede di registrazione per potenziare la ruvidità del pezzo. Questo esperimento porta alla creazione di uno dei suoni più potenti della musica rock. Il suono di “You Really Got Me” sarà presente nella maggior parte delle chitarre garage punk da lì a venire. Altra caratteristica fondamentale del brano è il veloce assolo che fa da ponte al finale. Prendendo strade che si separeranno, è da “You Really Got Me” che prende via il percorso di concepimento e conseguente evoluzione del punk e dell’hard rock. A sottolineare questo percorso rivoluzionario è anche il singolo successivo “All Day And All Of The Night” che, muovendosi nelle stesse sporche acque, accresce le violenza interpretativa. Il disco omonimo d’esordio conferma le aspettative date da questi due singoli. Le distorsioni sono sempre presenti, sia nei brani più tirati come “Beautiful Delilah”, “I’m A Lover Not A Fighter” e la martellante strumentale “Revenge”, che in quelli più canonici come “So Mistifying” e “Stop You Sobbing”. La voce di Davies è sempre rauca e nasale, le chitarre del fratello ad ogni battuta sempre più ruvide. Il lato melodico è occupato da “Just Can’t Go To Sleep” e “I Took My Baby Home” che sono dirette discendenti del merseybeat di Liverpool.

1965. KINDA KINKS


       Ad accompagnare l’aspetto discografico, i Kinks si fanno conoscere in tutta Inghilterra grazie ai loro violenti concerti che spesso si concludono in risse tra i membri del gruppo. A superare per impatto sonoro la pesantezza dei Kinks saranno solo gli Who, tra i loro più grandi estimatori. Uno di questi episodi costa al gruppo una censura da parte del mercato discografico americano che impedirà alla band di esibirsi oltreoceano per i successivi cinque anni. A dar seguito ai successi dell’anno precedente ci pensano la melodica “Tired Of Waiting For You” e il rockabilly elettrificato di “Ev’rybody’s Gonna Be Happy”. Il secondo album oltre ad essere diretta conseguente del precedente (“Got My Feet On The Ground”, “Come On Now”) lascia intravedere qualche primo  barlume acustico nelle composizioni di Davies (“Nothin’ In This World Can Stop Me From Worryin’ ‘Bout That Girl”, “So Long”, “Something Better Beginning”). A proseguire su un percorso di mediazione è pubblicato il settimo singolo “Set Me Free” che è più vicino alle sponde tranquille di “Tired Of Waiting For You” che a quelle scogliose di “You Really Got Me”. Di opposta ispirazione è invece la potentissima B side “I Need You”.

1965. THE KINK KONTROVERSY

 
       A metà anno viene pubblicato un altro 45 giri fondamentale per il gruppo e per la musica rock del periodo. Si tratta di “See My Friends”. Brano composto dopo una tourneè in oriente anticipa di molti mesi l’avvento della moda psichedelica. Davies ispirato dalla musica indiana concepisce una melodia e un arrangiamento per chitarra completamente innovativi per l’epoca di fatto facendo nascere il genere raga rock che presto sarà preso in prestito da molti gruppi tra i quali i Beatles e, per certi aspetti, i Velvet Underground. The Kink Kontroversy, anticipato da “Till The End Of The Day”, terza ed ultima parte di una violenta trilogia iniziata con “You Really Got Me” e proseguita con “All Day All Of The Night”, è un disco di transizione. Presenta elementi caratteristici del primo periodo e ne anticipa altri del successivo. Per il lato proto hard rock sono presenti il singolo sopracitato, “Milk Cow Blues” (con un rave up finale degno degli Yardbirds) e “Gotta Get The First Plane Home”. Il lato melanconico, che prenderà il sopravvento a breve nella scrittura di Ray Davies, è rappresentato da “Where All The Good Times Gone”, “The World Keeps Going Round” e “I’m On An Island”, primi esperimenti di un modo nuovo di intendere la canzone d’autore inglese. I due brani che fanno da spartiacque ed inaugurano il secondo e più importante periodo dei i Kinks sono “A Well Respected Man” (dall’Ep Kwyet Kinks) e “Dedicated Follower Of Fashion” (singolo di fine ’65). Il cambio di direzione è radicale: Davies inizia il suo percorso d’indagine su pregi e difetti, vizi e virtù della borghesia britannica. Da questa coppia di brani in poi il cantante metterà a nudo ogni aspetto, ogni angolo della sua amata nazione in doloroso e costante mutamento.

1966. FACE TO FACE


       È con il 1966 che Davies comincia a comporre una serie di capolavori di musica popolare che proseguiranno almeno fino ad inizio anni ’70. Primi fondamentali singoli di questo nuovo corso sono “Sunny Afternoon” e “Dead End Street”, due modi speculari per descrivere la società contemporanea: la prima incentrata sulla upper class, con le innocue difficoltà date dalla sua routine, e la seconda sulla working class, un vero capolavoro per composizione e liriche. Incastonato tra queste due pubblicazioni è posto l’album Face To Face. Il disco è uno dei primi concept album della musica inglese. Come lasciato intuire dal titolo quest’opera è una rassegna che passa volto per volto una serie di personaggi reali e surreali descritti con minuziosa severità a volte e sarcastica ironia in altre. Da un’impiegata di un’agenzia del telefono (“Party Line”) passiamo ad una ragazza scappata di casa (“Rosie Won’t You Please Come Home”) per poi imbatterci nel ragazzo alla moda del quartiere (“Dandy”), la sua controparte (“Little Miss Queen Of Darkness”) e fare quattro chiacchiere sulla ripetitività del lavoro di  “Session Man”. In tutto il nostro peregrinare con Davies troviamo anche il tempo per godere dei benefici dati da una vita agiata nella nostra “House In The Country” indecisi se acquistare il “Most Exclusive Residence For Sale” del paese e, da migliori degli inetti, farci spennare di tutti i quattrini durante la nostra “Holiday In Waikiki”. I racconti di Davies sono di una sconfitta sociale mediata da un’unica possibilità di salvezza data dall’autocoscienza della propria posizione di eterno perdente.

1967. SOMETHING ELSE BY THE KINKS


       Nel 1967 mentre il mondo del rock è in preda ad aprire le proprie porte della percezione durante la summer of love Ray Davies cerca qualcos’altro e mettendo la retromarcia imbeve la sua musica di elementi musicali arcaici della musica folkloristica britannica come il vaudeville, le marce popolari, il music hall e molte altre. Proseguendo per un paragone astratto è interessante affermare come Davies e Bob Dylan in quest’annata stiano seguendo le stesse ricerche sonore in direzioni divergenti: entrambi disinteressati al movimento psichedelico, del quale in parte sono stati per alcuni elementi artefici nel creare, rifuggono lo sguardo verso il futuro rannicchiandosi nelle musiche dei loro diretti padri, da un lato l’Inghilterra delle campagne e dei villaggi diroccati, dall’altro l’America della frontiera.  Something Else segue il percorso di Face To Face andando più a fondo nella ricerca antropologica. Tutte le tracce che solcano il vinile sono imbevute di una pervadente malinconia dei tempi che furono e non saranno. Alla lista di personaggi se ne iscrivono altri. “David Watts”, ipotetico fratello del “Dandy” del precedente disco, il soldatino “Tin Soldier Man” e la sconfitta sociale nella contrapposizione della vita di due sorelle (“Two Sisters”). In oltre troviamo il primo brano di Dave Davies a riuscire a rivaleggiare con gli affreschi del fratello, la sardonica e decadente “Death Of A Clown”. Vero capolavoro dell’album e tra gli apici della poetica di Ray Davies è “Waterloo Sunset”, melanconica meditazione di un solitario osservatore della stazione di Waterloo al tramonto, dei suoi passanti tra i quali spiccano i due poveri innamorati Terry e Julie. Se pensiamo che tutto il mondo musicale negli stessi mesi è intento a viaggiare nei meandri della propria mente con dosi di marjiuana e acidi, farci offrire dalla famiglia Davies il the delle cinque (“Afternoon Tea”) è la cosa più paradossalmente trasgressiva che si possa immaginare. A chiudere l’annata i Kinks pubblicano il singolo “Autumn Almanac”, uno dei capolavori della musica pop inglese degli anni ’60, una rock opera condensata in unica canzone dove tutte le poetiche di Davies trovano posto. Di valore quasi pari è il suo corrispettivo lato B “Mr. Pleasant”.

1968. THE KINKS ARE THE VILLAGE GREEN PRESERVATION SOCIETY


       Anticipato dai 45 giri “Wonderboy” e “Days”, il 1968 vede la pubblicazione dell’opera magna dei Kinks. The Village Green Preservation Society è un concept album sulla perdità di valori della società, una raccolta di vignette e schizzi su ipotetici abitanti dell’immaginario Villaggio Verde dipinto da Ray Davies. Quest’opera bucolica si staglia tra i più importanti manifesti della musica popolare inglese del secondo novecento. La somma dei brani che lo contengono, già di per sé rilevanti, compone un capolavoro più ampio delle sue singole parti. Questo disco è un percorso a bussare di porta in porta alle abitazioni del Villaggio per conoscerne gli abitanti e le loro caratteristiche. Ricordarsi insieme del mito del paese in “Do You Remember Walter”, dei suoi treni a vapore ormai scomparsi (“Last Of The Steam-Powered Trains”), osservare il disadattato “Johnny Thunder”, i propri amici di un tempo (“All Of My Friends Were There”), re innamorarsi di “Monica”, renderci conto di come la gente faccia fotografie per tenere vivi più che i propri ricordi la propria esistenza (“People Take Picture Of Each Others”). A guardarlo da lontano questo disco rende l’idea di trovarsi davanti ad un malconcio libro di vecchie fotografie con tutta la malinconia che quest’azione porta alla memoria (“Picture Book”). Il pubblico ormai è distante dai Kinks e dai voli della memoria di Davies e i dischi faranno solo sporadiche incursioni nelle classifiche. “… and if I talked about the old times you'd get bored and you'll have nothing more to say...”: Davies ne è più che consapevole.

1969. ARTHUR (OR THE DECLINE AND FALL OF THE BRITISH EMPIRE)


       Riadattato da un progetto televisivo fallito i Kinks si cimentano nella loro prima rock opera. Arthur è un lavoro più complesso dei precedenti e possiede strutture compositive più articolate. Il discorso Davisiano dalla Gran Bretagna si allarga a tutto il Commonwelth narrando le vicende di un uomo borghese che dalla sua terra natia parte per cercare fortuna in Australia. L’opera contiene meditazioni sulla politica, sulla guerra (“Yes Sir, No Sir”, “Some Mother’s Son”, “Mr. Churchill Says”), sulla perenne sconfitta dell’uomo medio nei confronti delle istituzioni della società odierna (“Brainwashed”). A differenza di album a se coevi come Tommy degli Who e S. F. Sorrow dei Pretty Things, Arthur risulta un disco sicuramente più semplice ma allo stesso tempo solare riuscendo a non indugiare eccessivamente sugli aspetti più tetri tipici di una rock opera. La memoria storica è sempre presente (“Victoria”), così come le ipotesi di fuga dall’opprimente realtà urbana (“Drivin’”). Capolavoro del disco sono i sei minuti di “Shangri-la”, descrizione definitiva in musica della poetica di Davies.  A compendio dell’album che vede l’avvicendarsi tra lo storico bassista Quaife con il nuovo John Dalton, è pubblicato il singolo “Plastic Man”.

1970. LOLA VERSUS POWERMAN AND THE MONEYGOROUND PART ONE


       Partendo dall’ultimo brano di Arthur, la sua titletrack, i Kinks, forse grazie anche alla conclusione della diffida dal suonare in America, iniziano ad incorporare elementi caratteristici del sound statunitense come bluegrass e country. Il tutto risulta evidente con l’album del 1970, Lola che, lanciato dal singolo omonimo, torna a dare qualche frutto anche in campo di vendite. Curioso è il fatto che il disco del ritorno al successo commerciale sia un concept album incentrato su una forte critica alle case discografiche (“Powerman”) e alle loro strategie di spremitura degli artisti (“The Moneygoround”). Il lotto di brani vede spiccare il secondo singolo “Apeman”, i country inglesizzati “This Time Tomorrow” e “Denmark Street” e l’ottima ballata di Dave Davies “Strangers”. La chiusura dell’anno vede la pubblicazione della colonna sonora per il film Percy. Disco di poco interesse contiene di rilevante solo il brano “God’s Children”.

1971. MUSWELL HILLBILLIES


       Muswell Hillbillies porta agli estremi i dogmi solo accennati da Lola Versus Powerman And The Moneygoround. Il disco è un paradosso musicale che vede l’unione eterodossa di generi transatlantici nati ortodossi. Il bluegrass è unito al vaudeville (“Have A Cuppa Tea”, “Holiday”), il country al music hall e al cabaret (“Alcohol”, “Holloway Jail”). Il risultato è un controsenso storico di grande fascino. A livello tematico l’album è un ritorno ai luoghi d’infanzia della famiglia Davies, il quartiere londinese di Muswell. Il risultato sonoro emotivo è il ritrovarsi in un pub circondati da passanti e ubriachi di ogni sorta, racconti di vita, malesseri giornalieri. Il disco è circondato dall’apertura di “20th Century People” e la chiusura di “Muswell Hillbillie” che sono collegate musicalmente e ideologicamente per dare al tutto un unico filo conduttore. Questo ritorno all’infanzia da parte di Davies pare chiudere il periodo migliore della carriera dei Kinks che da questo momento si dedicheranno a progetti più ambiziosi ma non altrettanto riusciti. 

1972. EVERYBODY’S IN SHOW-BIZ, EVERYBODY’S A STAR


        Everybody’s In Show-biz inizia una seconda evoluzione nel suono del gruppo: dai concept album Davis tenta il grande salto e punta direttamente ai teatri cercando di creare quello a cui aveva sempre mirato da inizio carriera: la realizzazione di una grande opera popolare inglese. Show-biz è ancora un disco di transizione in questo percorso, diviso in due parti, una in studio e una dal vivo, è prosecuzione della critica al mercato discografico cominciata con Lola. Le pecche di questo album sono una sensibile sconnessione tra i brani che lo fa risultare più un riempitivo nella carriera che un album vero e proprio. Le uniche note positive sono i due brani pubblicati anche a parte, “Supersonic Rocket Ship”, ideale seconda parte di “Apeman”, la lunga nenia “Celluloid Heroes” e la curiosa “Hot Potatoes” sulle corde di Muswell Hillbillies. Il secondo disco non merita neppure menzione per la qualità sonora da bootleg e la scelta del materiale.

1973. PRESERVATION ACT 1


       Il gruppo già tramutatosi in quintetto ai tempi di Lola con l’aggiunta di John Gosling alle tastiere ora è diventato un vero e proprio progetto teatrale scritturando sezioni di fiati, archi e coristi. Il primo atto del progetto Preservation è un crogiuolo di cose già espresse da Davies e soprattutto espresse in passato in maniera molto più convincente. Se nella teoria l’idea di ripercorrere le vicende del capolavoro Village Green con una narrazione che va a fondo nello studio dei personaggi risulta interessante, su disco la scrittura di Davies è ridondante e auto indulgente. Più che una nuova rock opera sembra di ascoltare un remake mal riuscito di Arthur. A salvare il tutto dal totale disinteresse è presente uno degli ultimi brani degni di nota del gruppo “Sweet Lady Genevieve” che si staglia notevolmente dal resto delle composizioni.

1974. PRESERVATION ACT 2


        La seconda parte di Preservation riesce a coprire i difetti del primo atto con una migliore riuscita nella commistione tra rock e aspetti teatrali. L’amalgama dei brani e lo sviluppo narrativo è decisamente migliore. L’eccentricità dell’opera lo fa assomigliare a un punto di connessione tra The Who Sell Out (per un fluido connettivo dato dagli interventi dei giornali radio) e certi passaggi di Absolutely Free dei Mothers Of Invention (per la sua ecletticità musicale). Il disco non è neppure lontanamente paragonabile ai capolavori prece denti del gruppo ma è sicuramente il miglior risultato raggiunto nella sua incarnazione teatrale. Questa operazione avrà appunto superiori riscontri nella sua trasposizione su palco dove l’aspetto visivo, assente dal disco, eleverà maggiormente i risultati dell’opera.

1975. THE KINKS PRESENT A SOAP OPERA


       Se il progetto di Preservation è tematicamente collegato a un lavoro precedente come The Village Green Preservation Society, l’opera successiva si rifà a idee già espresse in Lola Versus Powerman And The Moneygoround e Everybody’s In Showbiz. Soap Opera è uno studio sulla celebrità e i suoi aspetti più meschini. L’album risulta però il più debole di questa parte di carriera dei Kinks. Il lotto di brani scelti per comporre quest’opera teatrale non è all’altezza delle creazioni passate e le autoindulgenze di Ray Davies oltrepassano le qualità intrinseche di ogni singolo brano. La sensazione principale è la ridondanza, sia interiore al disco, sia rispetto a poetiche già comunicateci più volte dal compositore. Se in precedenza certe eccentricità potevano essere giustificate da ricercate ironie e trovate da cabaret, in quest’album le scuse ontologiche non sembrano più reggere e pare di essere sommersi da una sensazione di totale lascività interpretativa. Nella sua ingrità Soap Opera ha il suono e la rilevanza culturale di una telenovela, e se intrinsecamente questa scelta può risultare affine al suo scopo, il risultato viaggia su un livello di mediocrità preoccupante. Più che cercare picchi è molto più semplice trovare le cadute di stile. Tra le poche note positive ascriviamo la doppietta “Nine To Five”/”When The Work Is Over” e “Holiday Romance”, che fanno rivivere certe emotività passate nella scrittura Davisiana. In questo periodo il resto del gruppo sembra più assecondare passivamente le stravaganti idee di Davies che partecipare attivamente alle registrazioni.

1975. THE KINKS PRESENT SCHOOLBOYS IN DISGRACE


       A chiudere il periodo teatrale di un gruppo che ormai non è più una rock band ma una banda di paese non può essere che un sentimento di malinconia. Schoolboys In Disgrace è un prequel di Preservation e segue le vicende della crescita adolescenziale di Mr. Flash, protagonista della doppia opera del biennio ‘73/’74. La qualità è di un gradino superiore a quella dell’album precedente grazie a un lieve ritorno a sonorità più rockeggianti. L’affiatamento tra i musicisti è migliorato e la volontaria scelta di seguire una filologia musicale incentrata su tipologie varie di rock anni ’50 è azzeccata. Il risultato tematico sembra predatare di qualche anno le sequenze scolastiche del Waters di The Wall attraverso una visione più sarcastica e ironica. Brani come “Education” e “The Last Assembly” hanno un suono e un’aspetto compositivo che convince maggiormente di tutto quello fatto in Soap Opera. Schoolboys sarà l’ultimo disco di quest’era dei Kinks. Con il successivo Sleepwalker si cimenteranno in un più canonico e per certi versi banale rock da arena. Davies concede alla sua malinconia e ai suoi ricercati anacronismi un ultimo saluto con la simbolica “No More Looking Back” che si rivela più un’autocritica e una spinta al cambiamento che un’autoanalisi poetica.

Discografia Uk

Lp:
1964 – Kinks [***]
1965 – Kinda Kinks [**1/2]
1965 – The Kink Kontroversy [***]
1966 – Face To Face [****]
1967 – Something Else By The Kinks [****]
1968 – The Kinks Are The Village Green Preservation Society [*****]
1969 – Arthur (Or The Decline And Fall Of The British Empire) [****]
1970 – Lola Versus Powerman And The Moneygoround Part One [***]
1971 – Muswell Hillbillies [***]
1972 – Everybody’s In Showbiz - Everybody's A Star [**]
1973 – Preservation Act 1 [**]
1974 – Preservation Act 2 [**1/2]
1975 – The Kinks Present A Soap Opera [*1/2]
1975 – The Kinks Present Schoolboys In Disgrace [**]

Singoli / Ep:
Long Tall Sally – 1964
You Still Want Me – 1964
You Really Got Me – 1964
All Day And All Of The Night – 1964
Kingsize Session [Ep] - 1964
Tired Of Waiting For You – 1965
Ev’rybody’s Gonna Be Happy – 1965
Kingsize Hits [Ep] - 1965
Set Me Free – 1965
See My Friends – 1965
Kwyet Kinks [Ep] – 1965
Dedicated Follower Of Fashion – 1965
Sunny Afternoon – 1966
Dedicated Kinks [Ep] - 1966
Dead End Street – 1966
Waterloo Sunset – 1967
Death Of A Clown – 1967
Autumn Almanac – 1967
Susannah’s Still Alive – 1967
Wonderboy – 1968
Kinks [Ep] - 1968
Days – 1968
Drivin’ – 1969
Shagri-la – 1969
Victoria – 1969
Lola – 1970
Apeman – 1970
God’s Children – 1971
From The Soundtrack Of The Film 'Percy' [Ep] - 1971
Supersonic Rocket Ship – 1972
Celluloid Heroes – 1972
Sitting In The Midday Sun – 1973
Sweet Lady Genevie – 1973
Mirror Of Love – 1974
Holiday Romance - 1974
Ducks On The Wall – 1975
You Can’t Stop The Music – 1975
No More Looking Back – 1976

Live:
1968 – Live At Kelvin Hall

O.S.T.:
"Percy" - 1971